Deficit uditivo, sordità e depressione

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Meno senti e più facilmente ti ammali di depressione e non solo. Lo affermano, con precise statistiche, diversi studi.

Precedenti ricerche si erano concentrate prevalentemente sugli anziani: già dalla metà degli anni ’90, diversi studi in ambito medico avevano mostrato una significativa correlazione tra la salute mentale e la perdita dell’udito, nella popolazione anziana. Oggi, grazie ai nuovi dati a disponibili, è possibile delineare un quadro più completo della relazione tra sordità e disturbi della sfera emotivo/relazione, anche in riferimento ai giovani e agli adulti.


Mancanza di consapevolezza, negazione del problema, vanità. E intanto la mente si ammala.

Secondo l’Istituto Nazionale Americano sulla Sordità e altri Disturbi della Comunicazione (National Institute on Deafness and Other Communication Disorders, NIDCD), circa il 15% degli americani adulti ha qualche problema di udito, con conseguenze molto pesanti sulla vita quotidiana. Ma le persone aspettano in media 6 anni, dai primi segni di perdita dell’udito, prima di prendere provvedimenti. Ben il 67% degli over 70 , infatti, non usa e non ha mai usato un apparecchio acustico pur avendone bisogno, e solo il 16% degli adulti, di età compresa tra 20-69, che ne avrebbe bisogno, ha provato a utilizzarlo. Pesano, secondo lo studio, la negazione del problema, la mancanza di consapevolezza, ma anche motivi meramente estetici. A rimetterci tuttavia sono l’umore e la mente.


Effetti dei deficit dell’udito sull’umore, nella popolazione dai 18 ai 69 anni: lo studio del dottor Chuang-Ming Li. 

Dallo stesso studio –  quello, amplissimo, condotto dal dottor Chuan-Ming Li, ricercatore del National Institute on Deafness and Other Communication Disorders, NIDCD) – emergono le prove a favore dell’ipotesi che, più è significativa la perdita dell’udito, più è alta l’ incidenza della depressione, anche in pazienti di età inferiore ai 70 anni. Per questa ricerca, i ricercatori hanno esaminato i dati del National Health and Nutrition Examination Survey degli Stati Uniti, tra cui oltre 18.000 adulti, dai 18 anni in su. Tutti i 18.000 partecipanti hanno compilato sia un questionario progettato per rivelare la depressione che, suddivisi in gruppi di età,  una scala di valutazione del proprio udito. Il professor Li ha trovato che oltre l’11%, di quanti affermavano di avere un problema di udito, soffriva di depressione (da moderata a grave), a fronte di un 7% di quanti dichiaravano di avere un “buon” udito, fino a scivolare a uno scarso 5% di quelli auto-definitisi  individui con un udito “eccellente”. Lo studio ha inoltre rilevato che, mentre la perdita dell’udito è legata ad un aumentato rischio di depressione negli adulti di tutte le età, è tuttavia più pronunciata negli intervistati di età compresa tra 18 e 69 anni. Le donne poi hanno mostrato una percentuale di incidenza della depressione  più elevata rispetto agli uomini.

“Abbiamo trovato un’associazione significativa tra i disturbi dell’udito e la depressione da moderata a grave”, ha detto l’autore dello studio. “La relazione causa-effetto tuttavia è sconosciuta”, ha aggiunto il dottor Chuan-Ming Li, evidenziando la necessità di ulteriori studi.


Perdita dell’udito e depressione: lo studio del National Council of Aging 2015

Che l’inesorabile perdita dell’udito sia associata alla depressione, lo dice anche il recente studio condotto dal Consiglio Nazionale sull’ Invecchiamento (National Council on Aging), presentato presso l’American Psychological Association Convention nel 2015, a Toronto. Una ricerca che, coinvolgendo 2.304 persone affette da perdita dell’udito, ha trovato che, le persone con una sordità parziale, hanno il 50% di possibilità in più di sviluppare la depressione. Tuttavia è anche emerso che, la mancanza di udito, spesso non viene curata, perché non considerata malattia.

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Deficit uditivi e salute mentale

Il professore di Psicologia David Myers, docente presso lo Hope College del Michigan, riferisce che: “la rabbia, la frustrazione, la depressione e l’ansia sono comuni tra le persone che si ritrovano con problemi di sordità”.  Chi soffre di perdita di udito cioè è più incline a sviluppare una miriade di problemi mentali ed emotivi, come:

  • Rabbia
  • Depressione
  • Ansia
  • Solitudine
  • Frustrazione,
  • Deterioramento delle funzioni cognitive

Deficit uditivi, declino cognitivo e depressione

Il declino cognitivo è uno dei problemi più significativi collegati alla perdita dell’udito. In che modo il deterioramento delle capacità cognitive e la demenza siano connesse con la sordità non è ancora chiaro, tuttavia i ricercatori credono che sia un complesso intreccio multi-fattoriale a determinare, come “effetto collaterale”, il deficit cognitivo. Uno studio condotto dalla University of Colorado ha analizzato uno tra i più evidenti fattori corresponsabili: la riorganizzazione cerebrale che si verifica in caso di alterazioni sensoriali e percettive. In particolare, quando sono i centri dell’udito a rimpicciolirsi,  accade che anche le parti deputate alla memoria a breve termine o quelle implicate nella risoluzione dei problemi, si deteriorino.


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Deficit uditivi, isolamento sociale, declino cognitivo e depressione

Tra gli anziani, ma non solo, il ritiro e l’isolamento sociale sono quelle condizioni, frequentemente diffuse che, sfortunatamente, non fanno che esacerbare il disturbo della perdita dell’udito. Le persone con deficit uditivo, infatti, tendono spesso a provare frustrazione quando cercano di intercettare e comprendere i suoni del mondo, specie nei contesti particolarmente rumorosi. Di conseguenza, cercando di evitare le attività conviviali e i luoghi affollati, progressivamente possono arrivare a ridurre la propria vita sociale al minimo, fino all’isolamento. Un isolamento che, a lungo termine, arriva a compromettere il funzionamento cognitivo globale (declino cognitivo/demenza) della persona. Il cervello può essere paragonato, infatti, ad “un muscolo”: smettendo di utilizzare determinate aree cerebrali, a causa della mancanza di stimoli, queste si atrofizzano, causando danni e complicazioni più o meno estese e gravi.

Chi non utilizza apparecchi acustici, pur avendone bisogno, ha il 5% in più di probabilità di soffrire di depressione rispetto a chi ne fa uso, e l’isolamento sociale conseguente potrebbe aumentare anche il rischio di demenza.


Prevenzione e trattamento

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Sottoporsi a preventivi test dell’udito e diventare più consapevoli dell’importanza del buon udito nella comunicazione quotidiana, sono comportamenti che aiutano a preservare, a lungo termine, la socialità e la buona salute mentale delle persone con deficit uditivo. Usare apparecchi acustici può aiutare a riprendere il controllo della propria vita, a riconquistare la stabilità emotiva e a recuperare ottimamente il funzionamento cognitivo. Le moderne soluzioni protesiche inoltre fanno sì che gli apparecchi acustici non rappresentino più un ingombro antiestetico e stigmatizzante: grazie ad opzioni come la funzionalità wireless Bluetooth esistono infatti dispositivi al 100% invisibili.

L’ipoacusia è una malattia subdola e non visibile, capace di compromettere la vita sociale delle persone, che sono portate ad isolarsi proprio perché incapaci di comunicare come vorrebbero. Quando gli apparecchi acustici e la terapia medica si rivelano insufficienti nella riconquista della serenità, è fortemente raccomandato un percorso di riabilitazione/sostegno psicologico finalizzato primariamente all’ empowerment e all’accrescimento del senso di auto-efficacia della persona.


Dott.ssa Silvia Darecchio – Psicologa (contatti)

 

Psicosomatica: l’intestino

Secondo la teoria elaborata recentemente dallo scienziato americano Michael Gershon,     l’intestino  è  come  un  “secondo  cervello” .   In che senso?

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Intestino e cervello originano embriologicamente dalla stessa massa di tessuti: una parte diventa il sistema nervoso centrale, l’altra diventa il sistema nervoso enterico (deputato a governare le funzioni fondamentali dell’apparato digerente), collegati tra loro dal nervo vago. A differenza del resto del sistema nervoso periferico, quello enterico non esegue necessariamente i comandi che riceve dal cervello né rimanda sempre le informazioni ai distretti superiori, ma può elaborare i dati ricevuti dai propri recettori sensitivi e agire in modo indipendente nell’organizzazione nervosa del corpo. L’intestino contiene, cioè, neuroni in grado di essere autonomi, ossia che possono far funzionare l’organo senza ricevere istruzioni dal cervello o dal midollo spinale. Sembra infatti che il nervo vago, collegamento tra i due sistemi nervosi, costituisca solo una minima parte della comunicazione che avviene in entrambe le direzioni.  Dal momento in cui il cibo viene deglutito a quello in cui viene espulso l’intestino può regolare da solo tutte le fasi, il sistema nervoso centrale è assolutamente necessario solo per la deglutizione e per l’atto della defecazione. La presenza del cibo nell’apparato gastrointestinale è rilevato dal sistema nervoso enterico che avvia la secrezione di materiali digestivi e stimola l’intestino a mettere in atto le azioni appropriate per la digestione in quel determinato momento.

Le ricerche più recenti hanno scoperto che il cervello enterico produce il 95% della serotonina, uno dei principali neurotrasmettitori del sistema nervoso. L’intestino, inoltre, sarebbe in grado di memorizzare stress e ansie utilizzando le stesse sostanze chimiche (serotonina, dopamina, sostanze oppiacee e antidolorifiche) impiegate nel cervello (Lanza, 2009). Si può affermare che i due cervelli usano lo stesso linguaggio chimico e che, pur funzionando in modo autonomo e integrato, si influenzano grandemente a vicenda. Questo stretto  rapporto può essere sperimentato  quando si ha, ad esempio, mal di testa o insonnia da cattiva digestione o una stretta allo stomaco in situazioni di stress mentale (Lanza, 2009).

Alexander, negli anni ’30, mise in discussione che il principale fattore eziologico delle patologie psicosomatiche fosse di natura esclusivamente psicologica. Secondo l’autore il Sistema Neuro-Vegetativo, all’interno del quale si integrano soma e aspetti affettivo-relazionali, influenza sia il comportamento individuale sia l’attività dei sistemi enzimatici attraverso reti neuronali periferiche. La sua capacità, quindi, di regolare contemporaneamente la vita istintivo-affettiva e il metabolismo cellulare dimostra come esso rappresenti il legame tra sfera psichica e somatica così da permettere all’organismo di reagire in maniera unitaria agli stimoli interni ed esterni.

Secondo la neuro-gastroenterologia odierna il cervello responsabile della componente psico-emotiva è addirittura quello enterico, per cui non esisterebbe più un solo percorso eziologico a senso unico, ossia conflitto emotivo → cervello → organo, ma un’ambivalenza di ruoli (Lanza, 2009).

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Lavorando sul sistema intestinale, quindi, si possono ottenere:

  • un rafforzamento del sistema immunitario;
  • un innalzamento del quadro energetico in quanto viene aiutato il metabolismo dei cibi;
  • un beneficio a livello umorale, questo perchè il corretto smaltimento dei rifiuti del nostro organismo, garantisce un importante ricambio tossinico che altrimenti ristagnerebbe nel nostro corpo, producendo sintomi quali stanchezza, nervosismo e irritabilità.

 


 

Dott.ssa Silvia Darecchio  – Psicologa – San Polo di Torrile (Pr)  contatti