E tu che genitore sei?

Ti sei mai chiesto che genitore sei? Hai mai pensato: “forse dovrei essere più….” ? O anche: “forse dovrei essere meno…”? Il tuo stile è troppo permissivo? O al contrario troppo rigido? O forse ci metti troppa ansia nell’occuparti dei tuoi figli? E se invece ti arrabbiassi troppo? Scopriamolo insieme!

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dott.ssa Silvia Darecchio  – contatti

Preadolescenti e adolescenti: dal diario segreto ai social network

Nell’ epoca in cui le immagini, le parole, i pensieri, le emozioni, i comportamenti sono implacabilmente condivisi; in un momento storico in cui tutto è social, tutto è pubblico, tutto è esibito, il vecchio caro diario segreto rappresenta ancora uno strumento utile per crescere?

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La risposta è: “SI !”. E vediamo perchè… Scrivere il diario segreto aiuta i ragazzi a:

  1. avere uno spazio di sperimentazione, differenziazione e di emancipazione rispetto ai genitori e alla famiglia;
  2. mettere una distanza tra sé e le proprie emozioni;
  3. dare sfogo alle proprie pulsioni aggressive e distruttive;
  4. incontrare la propria intimità, indagando in profondità i propri sentimenti;
  5. abitare il luogo/non luogo dei propri confini, dove si rivendica il diritto ad avere dei segreti, di possedere e difendere una parte di sé totalmente privata, non- condivisibile;
  6. sviluppare nella scrittura creatività e fantasia.

Tenere un diario segreto è un segno del desiderio di crescere

Il pre-adolescente/adolescente, che scrive un diario segreto, comunica la sua volontà di crescere e il desiderio di fissare su carta qualcosa che gli altri non devono conoscere, nemmeno i genitori. Quegli stessi genitori che fino a pochi mesi prima erano gli interlocutori privilegiati, quelli che si sentivano raccontare tutto nei minimi dettagli, anche i più intimi, ora vengono tenuti a distanza. Infatti, mentre il bambino ha la necessità di condividere tutto con il genitore, perché tutto ha un senso solo attraverso il confronto con la mamma o con il papà, l’adolescente, al contrario, teme che rendere i genitori partecipi di certi vissuti, possa quasi sminuirne il valore. Tenere un segreto tutto per sé porta un ragazzo a sentirsi più grande, a riconoscersi come individuo unico, diverso e dotato di pensiero autonomo, soprattutto rispetto agli adulti. Scrivere un diario è un incontro con la propria intimità, dalla quale gli altri devono, legittimamente, restare fuori.


Scrivere è pensare

Scrivere è mettere i propri pensieri in una scatola. Scrivere è avere un luogo in cui andare a re-incontrare quelli che eravamo, ogni volta che avremo il desiderio di rivivere certe esperienze, relazioni ed emozioni. Nel momento in cui i ragazzi scrivono, è come se racchiudessero i propri pensieri in un forziere, che anche a distanza di anni potranno tornare ad aprire per rievocare quel periodo magico e complesso che è stata la loro adolescenza. Consegnare queste parti di sé ad un oggetto materiale, quale è il diario segreto, ha anche la fondamentale funzione, rassicurante e liberatoria, di “buttare fuori da sé” (esteriorizzare) tutti i pensieri, gli eventi, le emozioni forti e dirompenti tipici di questa delicata fase della vita.

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Leggerlo o non leggerlo?

Sbirciare o no nel diario segreto? No.

No, perché:

  • verrebbe meno il rapporto di rispetto reciproco e di lealtà tra genitori e figli;
  • la relazione con il figlio ne sarebbe inevitabilmente condizionata;
  • il ragazzo, di fronte ad un tale comportamento genitoriale, potrebbe sentirsi ancor meno compreso, con il risultato di  ottenere proprio quella chiusura emotiva e quell’allontanamento relazionale che i genitori massimamente temevano;
  • il genitore leggendo certe riflessioni, a volte dettate solo da reazioni “calde” ed  estemporanee,  potrebbe spaventarsi, preoccuparsi o scandalizzarsi ed assumere un atteggiamento diverso, condizionato e in alcuni casi, anche sprezzante, nei confronti dei propri figli pre-adolescenti/adolescenti.

Se il timore, comprensibile e condivisibile, del genitore è quello che possano esserci pensieri o circostanze che turbano la serenità dei propri figli, esistono modi altri per sondarlo:

  • essere e dimostrarsi disponibili al confronto;
  • essere attenti ed empatici;
  • essere profondamente “in ascolto”.  

Frasi come:  “Mi sembri triste, qualcosa non va? Qualcosa ti preoccupa?”; “Se hai voglia di parlare io ci sono”, sono esempi della volontà di esserci, in modo accogliente e disponibile. E’ necessario anche saper aspettare: se i ragazzi non si sentono braccati, spiati o giudicati, arriverà il momento in cui vorranno aprirsi, di loro spontanea volontà, senza che sia violata con prepotenza la loro privacy.

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Dott.ssa Silvia Darecchio – contatti

Il Disturbo Dipendente di Personalità

“Meglio soli che mal accompagnati…”

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Secondo il criterio 5 del DSM: “il soggetto con Disturbo Dipendente di Personalità (DDP) può giungere a qualsiasi cosa pur di ottenere accudimento e supporto da altri, fino al punto di offrirsi per compiti spiacevoli”.

Il Disturbo Dipendente di Personalità (DDP) è un Disturbo di Personalità caratterizzato da una pervasiva dipendenza psicologica dalle altre persone, da cui si ricerca protezione o approvazione. Questo disturbo è una condizione a lungo termine in cui la persona dipende dagli altri per soddisfare i propri bisogni emotivi e fisici; è caratterizzato da eccessiva paura e ansia; ha un’esordio nella prima età adulta; è presente in contesti molto diversificati tra loro ed è associato ad un funzionamento globale inadeguato. 

Come capire se una persona soffre del Disturbo Dipendente di Personalità? 

Per capire se una persona soffre di Disturbo Dipendente di Personalità devono essere  presenti almeno cinque tra questi sintomi (comparsi nella prima età adulta):

sintomi della personalità dipendente:

  • sentirsi vulnerabili, persi e indifesi quando soli;
  • avvertire l’impellente necessità di essere accuditi;
  • manifestare comportamenti sottomessi e dipendenti e un eccessivo timore della separazione;
  • considerarsi inferiori con la tendenza a sminuire le proprie capacità;
  • valutare ogni critica o disapprovazione come prove della propria incompetenza (con il risultato di compromettere ancor di più la fiducia in sé stessi);
  • cercare rapidamente, con la forza della disperazione, una qualsiasi nuova relazione intima se quella “vecchia” (di amore o di amicizia) per caso si è conclusa;
  • avere la preoccupazione irrealistica di essere lasciati soli e di non saper né bastare né badare a sé stessi;
  • avvertire un bisogno eccessivo di protezione, rassicurazione e supporto da parte degli altri (anche a costo di sottomettersi alla loro volontà per non rischiare disapprovazione e quindi rifiuto);
  • avere paura di essere (e di mostrare di essere) in disaccordo con gli altri temendone la disapprovazione e il rifiuto. Non arrabbiarsi, anche quando la rabbia sarebbe opportuna, con amici e colleghi di lavoro, per paura di perdere il loro sostegno;
  • mostrare una tendenza al “sacrificio”: offrirsi per mansioni e compiti sgradevoli e/o faticosi, pur di ottenere dagli altri supporto e accudimento;
  • tendere alla de-responsabilizzazione: richiedere spesso agli altri di assumersi le responsabilità che sarebbero proprie;
  • tollerare l’abuso fisico, sessuale o emotivo;
  • manifestare la difficoltà a prendere decisioni quotidiane da soli, cioè senza il ricorso a suggerimenti, rassicurazioni e consigli da parte degli altri;
  • avere difficoltà a iniziare progetti senza il supporto di altri;
  • non voler apparire troppo competenti per timore di essere abbandonati.

Le parole chiave per questo disturbo sono “appiccicoso” e “arrendevole”.

Caratteristiche psicologiche del Disturbo Dipendente di Personalità

Attraverso la valutazione di queste 6 macro-aree (1. la visione di sé stessi; 2. la visione degli altri; 3. le credenze intermedie e profonde possedute; 4. le minacce percepite; 5. le strategie di coping – di affrontamento –  utilizzate; 6. le emozioni principalmente esperite), possono essere descritte, con maggior facilità, le caratteristiche psicologiche più rilevanti della persona che soffre di Disturbo Dipendente di Personalità.

  1. Visione di se stessi: si considerano deboli, bisognosi, impotenti e incapaci.
  2. Visione degli altri: vedono gli altri, attraverso il filtro dell’idealizzazione, come fonti di nutrimento, supporto, calore, competenza e cura.
  3. Credenze intermedie e profonde: “per  riuscire a sopravvivere ho bisogno degli altri (specialmente di una figura forte)”, “è la mia fine senza di lui/lei”, “sono e sarò sempre infelice a meno che io non sia amato/a”, “riesco ad andare avanti solo se qualcuno di competente mi accompagna”, “per me l’abbandono è come la morte”, “se mi amano, sarò sempre felice”, “non devo offendere chi si prende cura di me”, “stammi vicino”, “le relazioni intime vanno coltivate il più possibile”, “devo essere servizievole con gli altri”, “sono impotente”, “sono completamente solo/a.”
  4. Minacce percepite: la minaccia maggiormente percepita riguarda il rifiuto e l’abbandono, non sentendosi in grado di affrontare la vita con autonomia.
  5. Strategie di coping: come fronteggiano le minacce percepite alla loro incolumità esistenziale? Coltivando una relazione di aiuto/dipendente. Tendono a fare questo subordinando loro stessi a una figura che considerano forte, cercando di placarla o lusingarla (per piacerle).
  6. Emozioni principali: l’emozione principalmente esperita dalle persone con questo disturbo è l’ansia, causata soprattutto dalla preoccupazione di una possibile fine della loro relazione dipendente. Sperimentano ansia elevata quando pensano che la relazione si potrebbe incrinare o logorare. Se la figura da cui dipendono invece viene meno, possono sprofondare nella depressione. All’opposto sperimentano gratificazione o euforia quando i loro desideri dipendenti vengono soddisfatti dall’altro.

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Quali sono le cause del Disturbo Dipendente di Personalità?

Le cause del Disturbo Dipendente non si conoscono ancora del tutto. Tuttavia i professionisti ipotizzano che, contribuisca allo sviluppo dello stesso, l’interazione di fattori genetico-temperamentali e ambientali. Questi fattori in particolare possono essere ritenuti co-responsabili dell’insorgenza di questa problematica di personalità:

  • una particolare sensibilità all’ansia;
  • un attaccamento insicuro;
  • una visione pessimista.

Fattori causali ambientali quali specifiche esperienze vissute in età infantile (o, al più tardi, adolescenziale) hanno una notevole rilevanza nello sviluppo del disturbo. Le ricerche hanno dimostrato infatti un’alta correlazione fra il comportamento dipendente in bambini di 7-8 anni e la personalità dipendente in età adulta. La tendenza, nelle famiglie con soggetti eccessivamente dipendenti, pare essere quella di controllare eccessivamente i propri membri, scoraggiandone l’indipendenza. Le persone con questo disturbo cioè, anche da adulte, si aspettano, ad esempio, di essere criticate, più o meno velatamente, quando prendono o tentano di prendere decisioni in autonomia. Altre caratteristiche familiari come la sottomissione, l’insicurezza, e il comportamento schivo possono contribuire. Anche le condizioni di disabilità o malattia durante l’infanzia e/o la giovinezza possono contribuire a sviluppare l’ immaturità psico-affettiva, il senso di  insicurezza e di rimpianto (rivivere il periodo delle cure assidue) tipici del DDP.


DEPRESSIONE E ANSIA

Uno dei più comuni problemi presenti nelle persone che soffrono di DDP è la depressione che si manifesta:

  • con una generale mancanza d’iniziativa;
  • con un sentimento che li porta a sentirsi indifesi;
  • con una difficoltà di problem solving e decision making.

Anche i disturbi d’ansia sono spesso associati al DDP.  Le persone che ne soffrono, facendo affidamento solo sulle altre persone, senza le quali ritengono di non poter vivere, sono molto predisposte all’ansia da separazione, sono cioè, più o meno consapevolmente, sempre preoccupate di essere abbandonate, lasciate da sole e senza protezione. Gli attacchi di panico possono invece verificarsi nel momento in cui prevedono o temono nuove responsabilità che non credono di poter affrontare; mentre la presenza di fobie pur assicurando loro le cure e la protezione che patologicamente “desiderano” (vantaggi secondari) non fanno altro che confermare la loro credenza: l’ incapacità a fare da soli, senza l’intervento di un altro.


Come psicologa, oltre al servizio di consulenza online, ricevo in studio a San Polo di Torrile (Parma). Da oltre 10 anni ascolto ed aiuto le persone, concretamente, ad uscire dalle situazioni difficili, a fronteggiare le sfide esistenziali e a riprogettare il futuro.

In condizioni di stallo motivazionale e sofferenza psicologica posso aiutarti a superare le tue difficoltà, accompagnandoti verso una consapevolezza rinnovata di te, dei tuoi bisogni, delle tue priorità e del tuo modo di “funzionare”. Posso aiutarti a ritrovare la serenità e  il benessere.

Dott.ssa Silvia Darecchio – contatticonsulenza

Disturbi di Personalità

«La personalità è la più o meno stabile e durevole organizzazione del carattere, del temperamento, dell’intelletto e del fisico di una persona: organizzazione che determina il suo adattamento totale all’ambiente.»

Hans Eysenck “The structure of Human Personality”

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Cos’è la personalità?

Con il termine personalità si intende l’insieme delle caratteristiche psichiche e delle modalità comportamentali che definiscono il nucleo delle differenze individuali è, cioè, la combinazione di quei pensieri, di quelle emozioni e di quei comportamenti che rendono ogni individuo unico. Cicerone definì la personalità come “quella parte che si recita nella vita”; non a caso la “persona” rappresentava, nella tradizione latina, la maschera indossata dagli attori, usata per semplificare il tipo umano rappresentato. La personalità, in questo senso, può essere definita come quel “filtro” che permette (insieme al proprio “viso”, da visus, cioè “visto”) agli individui di entrare in relazione con gli altri e quindi di essere, dagli altri, conosciuti e riconosciuti;  è la lente attraverso cui la persona vede se stessa, comprende la realtà e dialoga con il mondo esterno; è l’organizzazione interna di sistemi psicologici che organizzano il suo particolare adattamento all’ambiente.

La personalità è un concetto tipicamente dinamico e gli esseri umani affrontano, durante tutto l’arco della loro vita, alcuni nodi cruciali di passaggio necessari (prima infanzia, svezzamento, “fase dei no”, pubertà, adolescenza, conflitti, ecc…) per evolvere una maturazione psicofisica adeguata al contesto sociale. La personalità inizia a formarsi durante l’infanzia, attraverso l’interazione tra fattori ereditari e ambientali. Nello sviluppo normale, i bambini imparano con il tempo a interpretare con precisione i segnali sociali e a rispondere in modo appropriato. Diversamente è possibile che si generi un disturbo della personalità.


Quanti e quali disturbi di personalità

I disturbi di personalità condividono quattro principali caratteristiche:

  1. Pensiero distorto
  2. Risposte emotive problematiche
  3. Eccessiva o ridotta regolazione degli impulsi
  4. Difficoltà interpersonali

Secondo il DSM-5 (APA 2013) queste caratteristiche combinate possono dare origine a 10 disturbi di personalità organizzati in 3 cluster (insiemi).

Cluster A dei disturbi di personalità

Condotte di comportamento bizzarre o eccentriche. Questi disturbi condividono un significativo disagio negli ambienti socialiritiro sociale e pensiero distorto.

I disturbi di personalità del Cluster A sono:

  • Disturbo Paranoide di Personalità
  • Disturbo Schizoide di Personalità
  • Disturbo Schizotipico di Personalità

Il paranoide pensa che gli altri lo danneggino, lo schizotipico pensa che gli altri non si curino o non apprezzino la sua unicità, lo schizoide che gli altri siano crudeli e rifiutanti.

Cluster B dei disturbi di personalità

Condotte di comportamento drammatiche, emotive o dis-regolate. Questi disturbi condividono difficoltà nel controllo degli impulsi e nella regolazione emotiva.

I disturbi di personalità del Cluster B sono:

Cluster C dei disturbi di personalità

Condotte di comportamento ansioso o inibito. Questi disturbi si caratterizzano soprattutto per gli alti livelli di ansia e di inibizione sociale; per i sentimenti d’inadeguatezza e per l’ipersensibilità alle valutazioni negative.

I disturbi di personalità del Cluster C sono:

 


Come psicologa, oltre al servizio di consulenza online, ricevo in studio a San Polo di Torrile (Parma). Da oltre 10 anni ascolto ed aiuto le persone, concretamente, ad uscire dalle situazioni difficili, a fronteggiare le sfide esistenziali e a riprogettare il futuro.

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Dott.ssa Silvia Darecchio (contatti)

Deficit uditivo, sordità e depressione

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Meno senti e più facilmente ti ammali di depressione e non solo. Lo affermano, con precise statistiche, diversi studi.

Precedenti ricerche si erano concentrate prevalentemente sugli anziani: già dalla metà degli anni ’90, diversi studi in ambito medico avevano mostrato una significativa correlazione tra la salute mentale e la perdita dell’udito, nella popolazione anziana. Oggi, grazie ai nuovi dati a disponibili, è possibile delineare un quadro più completo della relazione tra sordità e disturbi della sfera emotivo/relazione, anche in riferimento ai giovani e agli adulti.


Mancanza di consapevolezza, negazione del problema, vanità. E intanto la mente si ammala.

Secondo l’Istituto Nazionale Americano sulla Sordità e altri Disturbi della Comunicazione (National Institute on Deafness and Other Communication Disorders, NIDCD), circa il 15% degli americani adulti ha qualche problema di udito, con conseguenze molto pesanti sulla vita quotidiana. Ma le persone aspettano in media 6 anni, dai primi segni di perdita dell’udito, prima di prendere provvedimenti. Ben il 67% degli over 70 , infatti, non usa e non ha mai usato un apparecchio acustico pur avendone bisogno, e solo il 16% degli adulti, di età compresa tra 20-69, che ne avrebbe bisogno, ha provato a utilizzarlo. Pesano, secondo lo studio, la negazione del problema, la mancanza di consapevolezza, ma anche motivi meramente estetici. A rimetterci tuttavia sono l’umore e la mente.


Effetti dei deficit dell’udito sull’umore, nella popolazione dai 18 ai 69 anni: lo studio del dottor Chuang-Ming Li. 

Dallo stesso studio –  quello, amplissimo, condotto dal dottor Chuan-Ming Li, ricercatore del National Institute on Deafness and Other Communication Disorders, NIDCD) – emergono le prove a favore dell’ipotesi che, più è significativa la perdita dell’udito, più è alta l’ incidenza della depressione, anche in pazienti di età inferiore ai 70 anni. Per questa ricerca, i ricercatori hanno esaminato i dati del National Health and Nutrition Examination Survey degli Stati Uniti, tra cui oltre 18.000 adulti, dai 18 anni in su. Tutti i 18.000 partecipanti hanno compilato sia un questionario progettato per rivelare la depressione che, suddivisi in gruppi di età,  una scala di valutazione del proprio udito. Il professor Li ha trovato che oltre l’11%, di quanti affermavano di avere un problema di udito, soffriva di depressione (da moderata a grave), a fronte di un 7% di quanti dichiaravano di avere un “buon” udito, fino a scivolare a uno scarso 5% di quelli auto-definitisi  individui con un udito “eccellente”. Lo studio ha inoltre rilevato che, mentre la perdita dell’udito è legata ad un aumentato rischio di depressione negli adulti di tutte le età, è tuttavia più pronunciata negli intervistati di età compresa tra 18 e 69 anni. Le donne poi hanno mostrato una percentuale di incidenza della depressione  più elevata rispetto agli uomini.

“Abbiamo trovato un’associazione significativa tra i disturbi dell’udito e la depressione da moderata a grave”, ha detto l’autore dello studio. “La relazione causa-effetto tuttavia è sconosciuta”, ha aggiunto il dottor Chuan-Ming Li, evidenziando la necessità di ulteriori studi.


Perdita dell’udito e depressione: lo studio del National Council of Aging 2015

Che l’inesorabile perdita dell’udito sia associata alla depressione, lo dice anche il recente studio condotto dal Consiglio Nazionale sull’ Invecchiamento (National Council on Aging), presentato presso l’American Psychological Association Convention nel 2015, a Toronto. Una ricerca che, coinvolgendo 2.304 persone affette da perdita dell’udito, ha trovato che, le persone con una sordità parziale, hanno il 50% di possibilità in più di sviluppare la depressione. Tuttavia è anche emerso che, la mancanza di udito, spesso non viene curata, perché non considerata malattia.

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Deficit uditivi e salute mentale

Il professore di Psicologia David Myers, docente presso lo Hope College del Michigan, riferisce che: “la rabbia, la frustrazione, la depressione e l’ansia sono comuni tra le persone che si ritrovano con problemi di sordità”.  Chi soffre di perdita di udito cioè è più incline a sviluppare una miriade di problemi mentali ed emotivi, come:

  • Rabbia
  • Depressione
  • Ansia
  • Solitudine
  • Frustrazione,
  • Deterioramento delle funzioni cognitive

Deficit uditivi, declino cognitivo e depressione

Il declino cognitivo è uno dei problemi più significativi collegati alla perdita dell’udito. In che modo il deterioramento delle capacità cognitive e la demenza siano connesse con la sordità non è ancora chiaro, tuttavia i ricercatori credono che sia un complesso intreccio multi-fattoriale a determinare, come “effetto collaterale”, il deficit cognitivo. Uno studio condotto dalla University of Colorado ha analizzato uno tra i più evidenti fattori corresponsabili: la riorganizzazione cerebrale che si verifica in caso di alterazioni sensoriali e percettive. In particolare, quando sono i centri dell’udito a rimpicciolirsi,  accade che anche le parti deputate alla memoria a breve termine o quelle implicate nella risoluzione dei problemi, si deteriorino.


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Deficit uditivi, isolamento sociale, declino cognitivo e depressione

Tra gli anziani, ma non solo, il ritiro e l’isolamento sociale sono quelle condizioni, frequentemente diffuse che, sfortunatamente, non fanno che esacerbare il disturbo della perdita dell’udito. Le persone con deficit uditivo, infatti, tendono spesso a provare frustrazione quando cercano di intercettare e comprendere i suoni del mondo, specie nei contesti particolarmente rumorosi. Di conseguenza, cercando di evitare le attività conviviali e i luoghi affollati, progressivamente possono arrivare a ridurre la propria vita sociale al minimo, fino all’isolamento. Un isolamento che, a lungo termine, arriva a compromettere il funzionamento cognitivo globale (declino cognitivo/demenza) della persona. Il cervello può essere paragonato, infatti, ad “un muscolo”: smettendo di utilizzare determinate aree cerebrali, a causa della mancanza di stimoli, queste si atrofizzano, causando danni e complicazioni più o meno estese e gravi.

Chi non utilizza apparecchi acustici, pur avendone bisogno, ha il 5% in più di probabilità di soffrire di depressione rispetto a chi ne fa uso, e l’isolamento sociale conseguente potrebbe aumentare anche il rischio di demenza.


Prevenzione e trattamento

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Sottoporsi a preventivi test dell’udito e diventare più consapevoli dell’importanza del buon udito nella comunicazione quotidiana, sono comportamenti che aiutano a preservare, a lungo termine, la socialità e la buona salute mentale delle persone con deficit uditivo. Usare apparecchi acustici può aiutare a riprendere il controllo della propria vita, a riconquistare la stabilità emotiva e a recuperare ottimamente il funzionamento cognitivo. Le moderne soluzioni protesiche inoltre fanno sì che gli apparecchi acustici non rappresentino più un ingombro antiestetico e stigmatizzante: grazie ad opzioni come la funzionalità wireless Bluetooth esistono infatti dispositivi al 100% invisibili.

L’ipoacusia è una malattia subdola e non visibile, capace di compromettere la vita sociale delle persone, che sono portate ad isolarsi proprio perché incapaci di comunicare come vorrebbero. Quando gli apparecchi acustici e la terapia medica si rivelano insufficienti nella riconquista della serenità, è fortemente raccomandato un percorso di riabilitazione/sostegno psicologico finalizzato primariamente all’ empowerment e all’accrescimento del senso di auto-efficacia della persona.


Dott.ssa Silvia Darecchio – Psicologa (contatti)

 

Benessere è assertività

La persona assertiva […] rifiuta di fare ciò che non desidera e persegue coerentemente i propri obiettivi. Sa aiutare gli altri, se gli viene richiesto. Entra in contatto con le sue emozioni, sa accettare le sconfitte. Tutto questo assicura maggiore consapevolezza e serenità nell’affrontare le situazioni quotidiane problematiche, facilità di relazione, soddisfazione e benessere personale.
Edoardo Giusti e Alberta Testi, L’assertività, 2006

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Il termine “assertività” viene attribuito ad Andrew Salter, studioso statunitense, che nel 1949 parlò per primo di “assertiveness” definendola uno stile di comportamento interpersonale, ma anche un modo di essere, capace di garantire uno stato di benessere emotivo nelle persone che lo adottano, per regolare le proprie relazioni. Ancora oggi la definizione che ne viene data è coerente con quella del 1949. Essere assertivi significa, in buona sostanza, comunicare in maniera flessibile, affermando il proprio punto di vista senza prevaricare né essere prevaricati.

L’assertività è il punto di equilibrio tra l’aggressività e la passività.

Viene concepita cioè come il punto medio ideale posto tra due estremi opposti: il polo aggressivo ed il polo passivo (poli anassertivi).

  • La persona che impiega uno stile interpersonale aggressivo è capace di esprimereangry-man-274175__340 ciò che pensa, ciò che sente ed è massimamente abile nell’ ottenere ciò che vuole, tuttavia lo fa senza tener conto della sensibilità e dei desideri dell’altro; tende cioè ad imporsi in modo intransigente, rigido ed inflessibile; conduce gli altri ad assecondare i propri bisogni. Chi adotta uno stile aggressivo spesso non è in grado di  tenere in considerazione le necessità, i sentimenti e le opinioni altrui; tende ad umiliare ed intimidire; può dimostrarsi, come un bullo, minaccioso e violento sul piano fisico. Ovviamente ottenere ciò che si vuole a scapito dell’altro ha un costo molto elevato, l’aggressività mina, infatti, il rispetto e la fiducia reciproca.  Le conseguenze negative, per chi adotta questo stile, sono spesso assai superiori a quelle positive: al progressivo isolamento sociale è associata un’alta percentuale di insorgenza di patologie fisiche e/o di origine psicosomatica.

  • La persona che utilizza uno stile interpersonale passivo è stata abituata adbully-3233568__340 assecondare prevalentemente i bisogni degli altri, per timore di essere “giudicata male” ; talvolta vorrebbe dire di “no”, ma alla fine risponde “sì”,  concedendo spazio alla paura di non essere accettata per quello che è. Le conseguenze negative di questa condotta sono diverse: anche se, infatti, il soggetto non viene solitamente attaccato né abbandonato,  tuttavia sente di non riuscire a dar voce ai propri bisogni (da qui l’insoddisfazione e/o i sintomi depressivi) e di essere sempre in balia delle decisioni altrui (da qui talvolta i sintomi ansiosi). Il conflitto interiore che facilmente nasce dal comportamento passivo può portare a stress, risentimento, rabbia, desiderio di rifarsi sul prossimo, vittimismo. Se lo stile di comunicazione interpersonale è passivo, la persona ha difficoltà a farsi ascoltare; spesso si trova a mettersi da parte; tende a tenere per sé il proprio parere;  si adegua alle decisioni prese da altri; cerca di evitare i conflitti. Così facendo manda il messaggio che i propri pensieri, punti di vista, opinioni, credenze ed emozioni non siano importanti.

  • Lo stile interpersonale passivo-aggressivo è un modo deliberato ma mascherato di esprimere sentimenti di rabbia nascosti (Long, Long & Whitson, 2008). L’aggressività passiva comprende tutta una serie di comportamenti volti, in modo celato, a “vendicarsi” nei confronti di un’altra persona; il bersaglio della vendetta, cioè, viene messo nella condizione di avere serie difficoltà a cogliere le reali intenzioni dell’altro e a riconoscere la rabbia sottesa a tali azioni. Tra i comportamenti passivo-aggressivi si hanno: fare promesse e non mantenerle, procrastinare, inventare scuse, lamentarsi ed assumere atteggiamenti vittimistici, ritirarsi dalla comunicazione, sabotare il successo degli altri, essere inefficienti intenzionalmente, ecc… Chi comunica secondo questa modalità, come nello stile passivo,  può dire “si” quando in realtà vorrebbe dire “no”; può essere sarcastico oppure lamentarsi degli altri alle loro spalle; può esprimere la rabbia e il disaccordo attraverso azioni/atteggiamenti negativi e controproducenti, invece di affrontare i problemi e i conflitti direttamente. Se la persona non riesce, perché non è abituata, a parlare apertamente dei propri bisogni e delle proprie emozioni frequentemente utilizzerà uno stile passivo-aggressivo. Nel lungo periodo tuttavia, questo tipo di comportamento è ancora più distruttivo di quello aggressivo. Infatti mentre nel breve termine, i comportamenti aggressivo-passivi risultano essere piuttosto convenienti, richiedendo scarso impegno, scarsa consapevolezza e scarse capacità assertive,  nel corso dei mesi e degli anni, portano i rapporti alla confusione, alla distruttività e alla disfunzionalità. Col tempo, il comportamento passivo aggressivo danneggia le relazioni, mina il rispetto reciproco, non permette di vivere le interazioni sociali con spontaneità e rende difficoltoso il raggiungimento degli scopi e il soddisfacimento dei bisogni di tutti gli attori coinvolti.

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Essere assertivi non vuol dire mandare a quel paese la gente, significa sostanzialmente esprimere le proprie opinioni, i propri sentimenti e far valere i propri diritti nel rispetto di quelli altrui.
Alessandra Faiella, Toglimi quel piede dalla testa, per favore, 2010

I VANTAGGI DELLO STILE ASSERTIVO
La comunicazione assertiva è diretta e rispettosa. La persona che comunica (verbalmente e non verbalmente) utilizzando lo stile interpersonale assertivo, con consapevolezza:

  • mette in atto un comportamento partecipe, attivo e non in contrapposizione con l’altro;
  • è responsabile;
  • ha piena fiducia in sé e negli altri;
  • manifesta pienamente il proprio sé affermando i propri diritti senza negare i diritti e l’identità dell’altro;
  • non giudica ed evita critiche non costruttive;
  • agisce senza pregiudizi;
  • ha la capacità di comunicare i propri sentimenti in maniera chiara, diretta e onesta senza prevaricare ne manifestare aggressività nei confronti dell’altro.

Imparare l’assertività permette alle persone di essere più sicure e competenti nella gestione della maggior parte delle situazioni sociali; permette inoltre una comunicazione efficace delle proprie emozioni e dei propri sentimenti. In generale, nella comunicazione umana, è maggiormente rilevante il modo con cui si esprime un pensiero piuttosto che il contenuto, del pensiero stesso. La comunicazione assertiva, in particolare, migliora la capacità di far arrivare all’altro il proprio messaggio aumentando notevolmente la probabilità che esso venga considerato. Se si comunica con una modalità aggressiva o passiva il messaggio può non arrivare, perché le persone rischiano di prestare più attenzione alle modalità espressive adottate (e reagire a queste modalità di comunicazione) più che al contenuto del messaggio. Ad esempio, una persona che ha commesso un errore può continuare a difendere la propria posizione pur sapendo che è sbagliata, piuttosto che dare ragione a qualcuno che si pone in modo agguerrito e quindi aggressivo. L’ assertività rappresenta un indispensabile strumento relazionale, perché permette di:

  • aumentare l’ autostima,  la fiducia in se stessi e il senso di autoefficacia;
  • capire, riconoscere e gestire le proprie emozioni;
  • ottenere il rispetto degli altri;
  • migliorare la qualità degli scambi comunicativi;
  • creare situazioni in cui tutti “siano vincitori”;
  • efficientare la capacità di prendere decisioni  (decision making);
  • creare relazioni oneste;
  • incrementare il senso di soddisfazione in tutti gli ambiti di vita.

Essere assertivi è una condizione dell’essere liberi, dove per essere liberi non si intende un affrancarsi dai condizionamenti, ma un poter scegliere responsabilmente.
Franco Nanetti, La forza di ritrovarsi, 2002

PENSARE ASSERTIVAMENTE
Sviluppare un comportamento assertivo tuttavia non vuol dire solo padroneggiare delle abilità sociali verbali e non verbali, imparare delle frasi o dei comportamenti, vuol dire soprattutto pensare assertivamente: avere uno sguardo assertivo su di sé, sugli altri, sul mondo e sulle relazioni.


UN CAMBIAMENTO POSSIBILE

Non esistono persone sempre assertive, ma solo comportamenti assertivi, che possono essere manifestati da tutti. Ciononostante, è vero che esistono persone che tendono ad essere aggressive, passive o assertive nella maggior parte delle situazioni.
Michele Giannantonio e Anna Boldorini, Autostima, assertività e atteggiamento positivo, 2002

Alcune persone hanno una tendenza prevalente (grazie all’interazione tra fattori genetici, ambientali e relazionali) a comportarsi in maniera assertiva, tuttavia per la maggior parte degli individui l’assertività rappresenta un’abilità che può essere appresa. Le persone sviluppano uno stile di comunicazione/comportamento, duraturo e stabile nel tempo, in funzione delle esperienze, positive e negative, che hanno vissuto. Questi stili interpersonali sono cosi radicati, trattandosi di “lenti” attraverso cui si interpreta la realtà delle relazioni, che può addirittura essere difficoltoso riconoscere il proprio. Nonostante questa difficoltà, capita che la persona semplicemente, dopo tante delusioni, tanta insoddisfazione, tanta amarezza, si senta stanca della qualità delle proprie relazioni e desideri cambiare: tale cambiamento è possibile.

Per imparare ad essere assertivi c’è bisogno di tempo e di pratica. Se, nonostante gli sforzi di consapevolezza, di crescita, di introspezione compiuti,   l’ assertività e le relazioni non migliorano, la persona può considerare di rivolgersi a professionisti qualificati per intraprendere un percorso centrato sull’apprendimento delle competenze  necessarie per l’assertività (training di assertività). Il gioco vale la candela. Diventando assertiva la persona riuscirà a vivere pienamente e con maggior spontaneità i rapporti con gli altri, ad esprimere finalmente i propri bisogni e le proprie emozioni, a mettere sé stessa al centro delle relazioni che vive, nel pieno rispetto di sé e degli altri.

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Come psicologa, oltre al servizio di consulenza online, ricevo in studio a San Polo di Torrile (Parma). Da oltre 10 anni ascolto ed aiuto le persone, concretamente, ad uscire dalle situazioni difficili, a fronteggiare le sfide esistenziali e a riprogettare il futuro.

In condizioni di stallo motivazionale e sofferenza psicologica posso aiutarti a superare le tue difficoltà, accompagnandoti verso una consapevolezza rinnovata di te, dei tuoi bisogni, delle tue priorità e del tuo modo di “funzionare”. Posso aiutarti a ritrovare la serenità e  il benessere.

Dott.ssa Silvia Darecchio – contatti

L’enuresi notturna

L’enuresi notturna è un disturbo, più che una malattia, e consiste nella perdita involontaria e completa di urina durante il sonno in un’età in cui la maggior parte dei bambini ha ormai acquisito il controllo degli sfinteri.

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E’ un problema frequente che interessa circa il 27% dei bambini dell’età di 4 anni, il 15% di 5-6 anni, il 6-7% di 9-10 anni, il 3% di 12 anni e l’1% di 18 anni. Alcuni ricercatori hanno osservato che si tratta di gran lunga del disturbo più diffuso tra i bambini, soprattutto maschi.  Per diagnosticare un disturbo da enuresi, tale comportamento deve presentarsi frequentemente e non dipendere da alcuna condizione medica generale, né dall’assunzione di sostanze; per enuresi notturna non si intende, infatti, la saltuaria e sporadica emissione di urine durante la notte, ma si parla di un problema che deve presentarsi con una certa frequenza: secondo alcuni autori è necessario un periodo di osservazione di almeno 2 settimane durante le quali il bimbo deve bagnare il letto per almeno 3 volte alla settimana, secondo altri autori l’osservazione va protratta per 3 mesi con almeno 2 notti bagnate alla settimana.


Esistono diversi tipi di enuresi:

  1. PRIMARIA/SECONDARIA. Primaria: quando i bambini non hanno mai acquisito  la continenza oltre il quinto anno di età. L’enuresi primaria ha cause prevalentemente fisiologico/organiche. Secondaria: si parla di enuresi secondaria quando, bambini con una adeguata continenza urinaria, la perdono successivamente. Tale condizione si manifesta soprattutto in bambini tra i 5 e gli 8 anni d’età e ha tra le cause fattori di tipo prevalentemente psicologico ed emotivo. Sintomatica: in questo caso l’enuresi compare come conseguenza di una malattia, ad esempio un’infezione urinaria o in casi molto più rari diabete mellito, epilessia ecc.
  2. NOTTURNA/DIURNA. Notturna: si tratta della condizione più comune, è la classica pipì a letto, dove il sintomo compare solo durante il sonno. Tipicamente il bambino bagna il letto durante il primo terzo della notte e l’atto di urinare è spesso accompagnato da un sogno evocativo. L’ enuresi diurna: si presenta al contrario quando la perdita di urine riguarda le ore di veglia. Questo sottotipo, molto meno frequente del precedente, raggiunge la sua massima frequenza intorno ai 9 anni di età, ed in media è più presente nelle femmine. Esiste poi una condizione mista definita enuresi notturna e diurna.
  3. CONTINUATIVA/A INTERMITTENZA. Un’ulteriore distinzione può essere fatta tra i bambini che sono enuretici continuativamente (enuresi continuativa) e quelli che lo sono a intermittenza (enuresi a intermittenza).
  4. MONOSINOTOMATICA/NON MONOSINTOMATICA. “Monosintomatica”: quando l’enuresi è l’unico sintomo e si manifesta solo durante il sonno. “Non-monosintomatica”: quando sono presenti anche sintomi vescicali durante il giorno. Ci possono essere altri problemi, soprattutto legati alla vescica, che vanno trattati prima di affrontare l’enuresi notturna. Un problema vescicale può dipendere da una incompleta o ritardata maturazione della vescica, che riesce a riempirsi meno di quanto ci si deve aspettare per l’età. Tra i sintomi vescicali diurni: andare in bagno troppo di frequente, o troppe poche volte, o con grande urgenza; fare pipì di volume molto basso, bagnare le mutandine o addirittura bagnare gli indumenti.

 


L’enuresi può essere anche associata a:

  • encopresi (ripetuta evacuazione di feci in luoghi inappropriati);
  • stipsi;
  • disturbo da sonnambulismo;
  • disturbo da terrore del sonno;
  • infezioni del tratto urinario (causate proprio dalle condizioni igienico-sanitarie dovute al disturbo).

Enuresi notturna, le cause del disturbo:

  • possono essere genetiche: l’enuresi è indubbiamente un disturbo ereditario e in circa il 70% dei casi almeno un familiare ha o ha avuto lo stesso problema da piccolo. Non è stato ancora identificato un gene specifico che la provoca, ma la ricerca si sta muovendo anche in questa direzione.
  • Possono essere fisiologiche: nella maggior parte dei casi, l’enuresi è causata da una sovrapproduzione di urina durante la notte (la cosiddetta poliuria notturna) o da una capacità insufficiente della vescica (come se fosse più piccola) e dalla difficoltà a svegliarsi dietro lo stimolo di vescica piena (si tratta, non di un problema di sonno eccessivamente profondo, ma di difficoltà nel risveglio. Se la vescica è piena si ha uno stimolo al risveglio, stimolo che è meno forte, o meno recepito, per il bambino enuretico). Quest’ultimo fenomeno aggrava la condizione, ed è proprio il problema da risolvere per arrivare alla guarigione dell’enuresi. 
  • Possono essere anche psicologiche. L’enuresi primaria non è causata da disturbi psicologici, ma chi ne soffre può certamente svilupparne come conseguenza. Soprattutto per quanto riguarda l’autostima, la fiducia in sé stessi e nelle proprie capacità. Queste problematiche cessano in genere, una volta che l’enuresi è stata trattata con successo. Solamente l’enuresi secondaria (un’enuresi che si manifesta dopo che il bambino ha raggiunto il controllo della vescica) è associata, oltre a possibili problemi fisici da ricercare attentamente, ad un maggior rischio di problemi comportamentali, quale la Sindrome da deficit di attenzione e iperattività. Tendenzialmente quando si manifestano tali episodi di pipì notturna, questi si associano ad un disturbo comportamentale o emozionale. Questi fenomeni possono essere transitori e legati ad eventi che hanno disturbato il piccolo, andando ad intaccare la stabilità e la sicurezza del suo apparato, come lo stress o fattori ansiogeni. Anche i cambiamenti possono interferire, come la nascita di un fratello, un lutto, un trasferimento di abitazione o di città oppure la separazione dei genitori ed anche le richieste eccessive delle prestazioni scolastiche. I bambini che soffrono di tali disturbi, anche se variano da soggetto a soggetto, sono sensibili e possono manifestare delle difficoltà a gestire i propri impulsi, come l’aggressività che simboleggia la capacità di esprime appieno se stessi, di affermarsi in qualsiasi ambito e di essere capaci a difendersi dai conflitti tra coetanei. Al disturbo si accompagna spesso un forte senso di disagio nello stare con gli altri, soprattutto a scuola, quando il bambino con enuresi si confronta coi coetanei.

Cosa deve e non deve fare il genitore

Deve essere ben chiarito che se un bambino bagna il letto non è colpa di nessuno: né del bambino né dei genitori. Il ‘senso di colpa’ dei bambini, anche se non manifesto, contribuisce molto a peggiorare il senso di malessere e di imbarazzo che il bambino prova, causando perdita dell’autostima e l’acuirsi delle insicurezze, anche in altri ambiti di vita. A loro volta, i genitori possono sentirsi colpevoli e incapaci di affrontare una situazione difficile e poco chiara. Se c’è qualcosa di sbagliato è rinunciare o attendere senza agire aspettando la risoluzione con la crescita, magari facendosi prendere dal nervosismo, con reazioni negative nei confronti del bambino. E’ importante sapere che si può fare qualcosa. Nessun bambino dovrebbe svegliarsi in un letto bagnato, quando ci sono soluzioni semplici che spesso migliorano o risolvono la situazione. Ecco qualche suggerimento per gestire al meglio la situazione:

  • dare al bambino consapevolezza e ottimismo: è la prima fondamentale terapia;
  • aiutare il bambino a non sentirsi solo, spiegargli che ci sono altri bambini nella sua scuola, e forse nella sua classe con lo stesso problema;
  • aiutare il bambino a combattere un naturale ma pericoloso senso di colpa;
  • dare spiegazioni complete e corrette per rimuovere la vergogna e il senso di colpa, per coinvolgere il bambino e motivarlo ad affrontare la cura;
  • non sgridare mai il bambino: è dimostrato che il rimprovero aggrava la situazione, mentre un atteggiamento comprensivo la migliora;
  • condividere: nel caso che anche i genitori abbiano sofferto di enuresi, comunicarlo al bambino può avere per lui un effetto rassicurante. Infatti il sapere che anche il papà o la mamma hanno avuto lo stesso problema e lo hanno superato è per lui di conforto e aiuta nel processo di guarigione;
  • non svegliare il bambino di notte: svegliare il bambino per farlo urinare non solo non serve a nulla ma può essere controproducente ed avere una valenza punitiva, meglio mettere un pannolino;
  • adottare qualche strategia di tipo comportamentale: sapere riconoscere gli eventuali sintomi diurni associati e riferirli al medico; attuare eventualmente con attenzione la rieducazione minzionale; abituare il bambino a bere poco la sera per non aumentare il volume di urina nella vescica; controllare che prima di andare a letto il bambino abbia svuotato completamente la vescica.

QUALI SONO LE CURE PER L’ENURESI?

Una volta verificato che il bambino vuole affrontare il problema, si può iniziare il trattamento, innanzi tutto con una visita pediatrica che escluda altre patologie. Se il quadro clinico non è compromesso, i primi presidi di cura sono il trattamento comportamentale e di sostegno al bambino, e le buone abitudini di bere al mattino, evitare bevande gassate e caffeina il pomeriggio e mantenere regolare lo svuotamento intestinale. A seguire, le cure sono sostanzialmente due:

  • per l’enuresi monosintomatica: l’allarme notturno e un farmaco, la desmopressina, che riduce la produzione di urine la notte (anti-diuretico). Il primo serve a facilitare il risveglio quando la vescica è piena, consentendo al bambino di andare a svuotarla in bagno;
  • per l’enuresi “non-monosintomatica” (cioè se ci sono sintomi vescicali di giorno) può essere necessario associare al farmaco antidiuretico farmaci diversi se la vescica si comporta come se fosse più piccola o con eccessivo stimolo anche a basso riempimento (vescica iperattiva). Se possibile, si può ricorrere a sedute di fisioterapia per la vescica (uroterapia) allo scopo di insegnare come si controllano gli stimoli e come si rilassano i muscoli per una minzione completa.
  • Gli eventuali problemi psicologici o comportamentali devono essere affrontati separatamente e indipendentemente dai sintomi dell’enuresi, grazie al sostegno di professionisti.

 

Come psicologa, oltre al servizio di consulenza online, ricevo in studio a San Polo di Torrile (Parma). Da oltre 10 anni ascolto ed aiuto le persone, concretamente, ad uscire dalle situazioni difficili, a fronteggiare le sfide esistenziali e a riprogettare il futuro.

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Quando si tradisce, quando si è traditi.

Il tradimento è un evento forte e traumatico che si abbatte pesantemente sulla coppia, compromettendone gli equilibri e la stabilità; tradire il partner significa distruggere il “noi” , paradigma della relazione.

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L’etimologia della parola “tradire” è latina, deriva da “tradĕre” che significa “consegnare (ai nemici). In origine, infatti, il tradimento era un “fatto militare”. Successivamente il termine si è esteso anche ad altri ambiti, fino ad assumere il senso odierno. Ha conservato tuttavia connotati fortemente negativi e dispregiativi: “tradire” significa, infatti, “mancare di fedeltà”, “abbandonare (il vecchio) per consegnarsi (al nuovo)”.


Le fasi dell’amore e il tradimento

Il rapporto di coppia è caratterizzato, a meno di accordi differenti tra le parti, da esclusività (sessuale e sentimentale) e da un certo grado di dipendenza. I partner,  cioè, stipulano tacitamente un contratto basato sulla fiducia e sulla fedeltà; una sorta di patto segreto che implica il soddisfacimento dei bisogni e delle aspettative di entrambi.

  • All’inizio di una relazione sentimentale, quando si è sopraffatti dall’ innamoramento, è raro tradire. L’innamoramento rappresenta, infatti, la fase in cui si attivano le nostre proiezioni sul partner: si trasferiscono sull’altro i nostri ideali e le nostre caratteristiche. Per questo il partner ci appare tanto unico e speciale ed essere infedeli, a quest’essere che incarna così perfettamente i nostri ideali, è un qualcosa che neppure ci sfiora. Tuttavia accade spesso che i desideri e le fantasie nascenti nell’innamoramento si trasformino in una prigione psichica per colui/colei che viene desiderato e “fantasticato”, e in una cocente delusione per colui/colei che ha fortemente idealizzato l’altro/a.
  • Quando si passa alla fase dell’amore adulto e maturo  l’altro viene visto per quello che è, con tutti i suoi difetti e le sue debolezze; crollano le proiezioni, le fantasie e la realtà dell’altro prende corpo. I bisogni e le aspettative disattesi, per alcuni individui, annullano il vincolo; pensare, cioè, che l’altro/a abbia fallito totalmente, nel renderli felici, significa la rottura del patto e la fine del progetto di vita insieme. In questa fase è elevatissima la probabilità di tradire, soprattutto in chi non sa affrontare la delusione della realtà, in chi ha troppo idealizzato il partner e non riesce a sostenere la maturità della costruzione di una coppia, meno idilliaca, ma più stabile, duratura ed appagante.

Le fasi della vita e il tradimento

  • ADOLESCENZA: nell’adolescenza il tradimento rappresenta il tentativo del soggetto
    di affermare la propria libertà, il proprio spazio di vita, i propri confini psicologici. L’adolescente manifesta con il tradimento del partner, inconsapevolmente, il rifiuto della dipendenza dai genitori. L’adolescenza, cioè, oltre ad essere una fase di sperimentazione sessuale, esprime, attraverso il tradimento, la volontà di affermare autonomia, a discapito di un’ unione che richiama quella simbiotica con i genitori. Attraverso l’infedeltà, inoltre, l’adolescente ricerca la conferma, narcisistica, del proprio valore e del proprio fascino, di cui ha disperato bisogno, in una fase delicata di costruzione dell’identità.

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  • “PRIMA” MATURITA’: per il giovane adulto (o comunque per il “giovane matrimonio”), che sta costruendo un nuovo nucleo familiare assumendosi impegni di convivenza e di costruzione di un progetto di coppia stabile, il tradimento esprime il bisogno interiore di rifuggire dagli impegni e dalle responsabilità che le decisioni assunte, comportano.
  • PIENA MATURITA‘: dopo anni di matrimonio, il tradimento rappresenta una gratificazione, narcisistica, nel confermare a se stessi il proprio fascino, nonostante l’età. L’uomo maturo tende a cercare avventure con donne più giovani per dimostrare a se stesso di essere ancora piacente e per poter vivere una seconda giovinezza. Similmente, per la donna matura il tradimento risponde al bisogno di veder confermata la propria femminilità, trasformata dai cambiamenti biologici ed ormonali.

Bisogni psicologici e tradimento.

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Le cause del tradimento sono sempre soggettive e specifiche, tuttavia, possono essere riconosciute delle macro-categorie di bisogni psicologici, generici e trans-generazionali, che portano i partner a scegliere il tradimento:

  • il BISOGNO DI CONFERMA: i soggetti, caratterizzati da un profilo psicologico insicuro e immaturo, tradiscono perché necessitano di costanti rassicurazioni e di  prove da superare. Vogliono cioè dimostrare a loro stessi di essere indiscutibilmente desiderabili e seducenti.
  • il BISOGNO DI PROVARE FORTI EMOZIONI SESSUALI: il bisogno di provare forti emozioni sessuali rispetto alla qualità dei rapporti sessuali vissuti con un partner di lunga data, magari poco soddisfacenti.
  • il BISOGNO DI INDIPENDENZA: l’infedeltà può rappresentare una difesa contro la paura di fusione che l’intimità di coppia evoca, oppure esprimere il rigetto della sensazione di essere dipendenti dal proprio partner.
  • il BISOGNO DI “DENUNCIARE” L’ INSUFFICIENZA DELLA RELAZIONE DI COPPIA, MANTENENDO UNA FACCIATA SOCIALE: il tradimento, spesso, è lo strumento attraverso cui si esternano all’altro tutti i problemi e le incomprensioni che sono rimasti celati, per non sconvolgere l’armonia della famiglia, nel tentativo disperato ed inconcludente di mantenere un’apparente facciata sociale. In questo caso l’infedele, che ha tenuto per sè i malcontenti rispetto alla relazione, non è stato in grado o non ha voluto instaurare un dialogo autentifico, atto risolvere le difficoltà di coppia.
  • il BISOGNO DI RIEMPIRE UN VUOTO ESISTENZIALE: alcune persone vivono il tradimento come un antidepressivo: una sorta di compensazione, funzionale a colmare dei vuoti profondi dettati dalla solitudine o da una perenne insoddisfazione interiore.
  • il BISOGNO DI CRESCITA: il tradimento può rappresentare anche una tappa del  percorso di maturazione e di evoluzione personale che può interessare  solo uno dei due partner. Se un membro della coppia ha affrontato un’esperienza prepotentemente trasformativa può accadere che anche lo schema di sé  sia cambiato e che siano emersi nuove priorità e nuovi bisogni che l’altro/a non è più in grado di soddisfare.
  • il BISOGNO DI TENERE SEPARATE LA SFERA AFFETTIVA DA QUELLA SESSUALE: esistono “traditori seriali”, individui per i quali essere infedeli rappresenta una costante. Spesso questi soggetti attuano una scissione tra sessualità e affettività, che diventano due dimensioni inconciliabili nella stessa relazione. Questo accade spesso negli uomini sposati che frequentano prostitute.

Vissuti psicologici del “tradito” e del “traditore”

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Certamente lo stato psicologico e i sentimenti provati dal partner infedele e da quello tradito sono molto diversi fra loroIl soggetto tradito, inizialmente, è fortemente sconvolto: il tradimento infatti rade al suolo le certezze e fa si che l’insicurezza e il senso di devastazione prevalgano. Può accadere anche che nella mente della persona tradita si creino pensieri ossessivi ed intrusivi circa il tradimento, morbosità rispetto ai dettagli dell’ “altra relazione”, urgenze di vario tipo. La ferita che lascia il tradimento è difficile che si rimargini completamente poichè resta, oltre alla  delusione, la consapevolezza che la fiducia sia stata compromessa. Permane la sensazione che nulla potrà essere come prima.  Se , tuttavia, sono presenti volontà e desiderio di continuare in entrambi, è possibile recuperare una “relazione tradita”. “Il tradito”, infatti, con il tempo e con un adeguato supporto, può trovare nel perdono dell’altro, quell’amore che aiuterà anche l’ “ex traditore”, a recuperare lo slancio per la continuazione del rapporto. Il “traditore”, che in un primo momento vive fortissimi sentimenti di colpa, da parte sua, grazie ad percorso di sostegno psicologico e forte di nuove consapevolezze, può trovare più di un motivo per riconquistare il  compagno/a e per ricominciare, da zero, a costruire la relazione.


In conclusione

L’ individuo, nella società del consumismo sessuale e sentimentale, è sempre più incline a salvaguardare i propri interessi personali rispetto a quelli della coppia. Se, nella relazione, qualche bisogno non viene corrisposto, pare che ognuno abbia il diritto di cercarne il soddisfacimento, in modo immediato e completo, con un altro partner, senza troppi pentimenti. Il sacrificio e l’impegno necessari per  la  realizzazione del progetto di coppia; la volontà di preservare il legame in crisi, attraverso il dialogo ed il compromesso, rappresentano aspetti di poco valore se rapportati all’ individualismo imperante, che oggi  tutto può. A seguito di un tradimento, tuttavia, non tutto è perduto, allorché ci sia l’intenzione di entrambi di proseguire e di valorizzare il rapporto, è possibile, non solo recuperare la relazione ma anche darle un senso nuovo.

Intraprendere un percorso psicologico di coppia (o individuale per entrambi) significa:

  • mettersi in gioco;
  • impegnarsi concretamente per dare alla relazione una chance, soprattutto se sono coinvolti dei bambini;
  • dare priorità al rapporto;
  • investire energie nella relazione;
  • acquisire delle competenze relazionali (atte a realizzare una comunicazione sincera,  costruttiva, in grado di esprimere in modo assertivo bisogni e insoddisfazioni);
  • imparare ad essere sinceri ed autentici con il partner;
  • imparare a realizzare un dialogo di coppia costante ed efficace (che consenta di ripartire insieme cresciuti, per vivere una nuova relazione, finalmente solida e soddisfacente).

 

Come psicologa, oltre al servizio di consulenza online, ricevo in studio a San Polo di Torrile (Parma). Da oltre 10 anni ascolto ed aiuto le persone, concretamente, ad uscire dalle situazioni difficili, a fronteggiare le sfide esistenziali e a riprogettare il futuro.

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Fobia di invecchiare e chirurgia estetica

VECCHIAIA E GERASCOFOBIA

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La paura di invecchiare è una paura molto umana, un sentimento diffuso, esteso tanto alla popolazione femminile quanto a quella maschile. Il modo di affrontare questa paura, tuttavia, non è lo stesso per tutti, in alcuni casi, infatti, può assumere le forme della patologia.

Quando si parla di “vecchiaia” è necessario distinguere fra la terza età (detta anche “prima vecchiaia” fino ad 80 anni) e la quarta età (detta anche “grande vecchiaia”).  E’ la vecchiaia della terza età ad essere maggiormente interessata dal fenomeno patologico. La gerascofobia (la fobia di invecchiare) è un disturbo, studiato a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, che colpisce molti individui delle età più disparate, ma che si manifesta, con maggior forza, superati i 50 anni.  


IL SEGRETO PER VIVERE UNA VECCHIAIA SERENA, SECONDO LO PSICOLOGO E. ERIKSON

Dopo i 50 anni è naturale iniziare a confrontarsi con il bilancio di quanto si è realizzato nella propria vita ed è, altrettanto naturale, provare un certo grado di angoscia nel rendersi conto di non aver raggiunto tutti i traguardi, professionali e personali, che ci si era prefissati. Erikson (Teoria Psicosociale dello Sviluppo da i I cicli della vita, 1987), a tal proposito, ha scritto che più la persona si avvicina alla senescenza, più raccoglie quanto ha seminato; più cerca di capire ciò che la sua esistenza abbia significato per sé e per gli altri; più tende a valutare quanto tali conclusioni siano soddisfacenti. Quando il bilancio è positivo, l’individuo ha la sensazione di aver speso adeguatamente la propria vita e, per questo, riesce ad affrontare con serenità anche la terza età. Nel caso in cui il bilancio sia negativo, la persona è portata a sperimentare sentimenti di rifiuto rispetto alla propria esistenza, di negazione della vecchiaia e di timore della morte. In questi casi, dice Erikson, prevale un senso di disperazione derivato della consapevolezza di non avere più tempo per rimediare agli errori commessi; tale disperazione è celata, spesso, dietro al disprezzo verso le persone, le istituzioni, le situazioni, vissuti che, in realtà, riflettono il disprezzo che l’individuo prova verso se stesso.


 FATTORI PREDISPONENTI LO SVILUPPO DELLA GERASCOFOBIA

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Vi sono diversi fattori, sociologici e psicologici, che possono “predisporre” a sviluppare la gerascofobia  (o gerontofobia). I soggetti più inclini a sviluppare questa fobia sono coloro che:

  • già soffrono di disturbi d’ansia (soprattutto fobie);
  • hanno significativi tratti narcisistici o soffrono del Disturbo Narcisistico di Personalità (o di altri disturbi di personalità o mentali);
  • fanno della bellezza, dei valori estetici, delle capacità fisiche (ma anche delle facoltà intellettuali) armi per rivendicare un proprio posto nel mondo e per imporsi nelle relazioni umane;
  • hanno il terrore di rimanere soli;
  • fanno della propria indipendenza un punto di forza e tendono a considerare l’invecchiamento solo come una condizione di progressiva perdita di autonomia;
  • tendono a non considerare gli aspetti più positivi della terza età (come una maggiore flessibilità del tempo a disposizione, una più intensa spiritualità e una certa saggezza);
  • provano, più genericamente, una profonda paura nei confronti della sofferenza fisica;
  • hanno il terrore della morte, vissuta come emblema della totale perdita di tutto ciò che si è amato e si ama.

Si parla di gerascofobia ogni volta che, da una funzionale destabilizzazione causata  dal cambiamento, rappresentato dalla senescenza, si arriva ad una “fobica” ed esasperata paura; accompagnata dall’ ossessiva, ripetuta e incontentabile ricerca di stratagemmi per allontanarla dalla mente (con eccessi esasperati di strategie cosmetiche o chirurgiche o di “ritocchini” estetici o di diete o di farmaci, ma anche ricorrendo all’ isolamento e/o alla maniacale ricerca di nascondere l’età ecc.). In tali casi, possono associarsi alla gerascofobia anche stati di panico, vertigini, e ansia costante, chiari sintomi di uno stato psichico che è al di fuori del cerchio di una quotidiana tensione. Se le paure sono allargate e le idee ricorrenti, verso un confine incalzante e da contenere, sarebbe bene ricorrere ad aiuti clinici di vario tipo.


FATTORI PSICOLOGICI CHE, DURANTE LA VECCHIAIA, PORTANO A RICORRERE ALLA CHIRURGIA ESTETICA. 

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Come si diceva, la gerascofobia è la paura (persistente anormale e ingiustificata) di invecchiare; classificata tra le fobie specifiche. Può essere associata al timore di restare soli, senza risorse e incapaci di provvedere a se stessi. Nell’intento di allontanare dalla mente, il più possibile, la vecchiaia, questa fobia può portare a ricorrere anche alla chirurgia estetica. La crescente diffusione, nella terza età (e non solo), dei trattamenti chirurgici estetici, può essere attribuibile a molteplici fattori:

  • l’evoluzione delle ricerca medica, che ha reso le procedure chirurgiche sempre più sicure e meno invasive,
  • il ruolo che i mass media attribuiscono ai canoni estetici di bellezza sempre più ideali,
  • l’insoddisfazione legata all’immagine corporea.

Negli ultimi anni, sono stati condotti numerosi studi volti ad approfondire il ruolo che i fattori psicologici esercitano nel ricorrere alla chirurgia estetica.

Fattori psicologici predisponenti

  • Disturbo di Dismorfismo Corporeo (o altre psicopatologie con sintomatologia simile): la cui caratteristica principale è l’estrema insoddisfazione per la propria immagine corporea;
  • disturbi mentali di diverso tipo: il 47,7% dei pazienti che ricorrono ai trattamenti chirurgici estetici, soffre di disturbi mentali (soprattutto di Disturbi di Personalità ma anche di ansia e di depressione).
  • Disturbi di Personalità (elevata prevalenza)il Disturbo Narcisistico di Personalità è stato rilevato nel 25% dei pazienti che ricorrono alla chirurgia estetica, mentre il Disturbo Istrionico di Personalità è stato rilevato nel 9,7% dei casi.

Altri fattori (legati soprattutto alla cessazione dell’attività lavorativa)

  • l’ emergere di un vissuto di esclusione dalla vita sociale;
  • i cambiamenti radicali, nell’assetto di vita di un individuo, vissuti con ambivalenza: da un lato come una liberazione dagli obblighi e dai vincoli, dall’altro come fonte di profonda destabilizzazione;
  • la deflessione del tono dell’umore con sentimenti di tristezza e vuoto;
  • (non potendo più servirsi del lavoro anche come strumento di “allontanamento” dalla parte più intima di sé) il ritrovarsi a contatto con se stessi e con i propri stati emotivi, talora dolorosi. Può accadere che ciò avvenga, tutto ad un tratto, nella fase della senescenza e che la persona sia poco preparata a gestirli.

In tali condizioni è possibile che la persona, sguarnita di altri strumenti, ricorra alla chirurgia estetica per “anestetizzarsi”, per non dover affrontare, cioè, stati emotivi dolorosi, connessi al processo di invecchiamento. D’altra parte, se l’individuo ricorre ai trattamenti chirurgici estetici, con un tale assetto psicologico, è probabile che l’insoddisfazione permanga. E’ infatti più verosimile, che l’insoddisfazione non riguardi tanto il corpo, quanto piuttosto un più generico vissuto personale, legato al mondo interiore dell’individuo.


In conclusione, di tutte le sfide cui è sottoposto l’individuo nel corso del proprio percorso evolutivo, quella della vecchiaia è la più umana. L’uomo, infatti, lungi dall’arrendersi al trascorrere del tempo, gioca con la vecchiaia una complessa partita, anche mediante strategie di compensazione. A qualunque età, infatti, sarebbe bene non lasciarsi dirigere dalle paure, ma cercare di indagarle, affrontarle e, magari, risolverle. Dove da soli sia possibile, è utile approdare ad una lucida e ragionevole accettazione dei cambiamenti, anche con l’aiuto di semplici strategie comportamentali:

  • non isolarsi;
  • chiedere e integrare le proprie con le altrui forze, riducendo le aspettative di cavarsela sempre e comunque da soli;
  • parlare con maggiore serenità di sé e del proprio status in divenire, utilizzando anche l’umorismo, per esempio;
  • ridurre o contenere l’ aggressività;
  • ridurre gli stati di eccessiva tristezza.

 

Dott.ssa Silvia Darecchio  – Psicologa – San Polo di Torrile (Pr)  contatti

Il gaslighting

Quando i silenzi feriscono più delle parole

C’è una forma subdola di violenza che non si manifesta con scoppi di rabbia bensì attraverso silenzi ostili e parole usate come armi. E’ una forma d’abuso antica, perpetrata soprattutto tra le “tranquille” mura domestiche, distruttiva poiché lascia ferite psicologiche molto profonde e difficilmente rimarginabili.  Parliamo del “GASLIGHTING”, una tecnica di crudele ed infida manipolazione mentale.

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Il termine è mutuato dalla drammaturgia e in particolare dal film “Gaslight” del regista americano Georg Cukor (1944), tratto a sua volta dalla pièce teatrale “Angel Street” di Patrick Hamilton (1938): un dramma psicologico che racconta le vicende di una coppia. Dopo un periodo felice il rapporto tra i due si incrina ed il marito, con una diabolica ed artificiosa tecnica psicologica, alterando le luci delle lampade a gas della casa, spinge la moglie fin sull’orlo della pazzia. Solo l’intervento di un detective riuscirà a ristabilire la verità: si scoprirà così che il marito è uno psicopatico criminale.


E’ difficile riconoscere questo tipo di violenza:

  • è insidiosa, sottile e non se ne percepisce l’inizio; spesso è scusata dalla stessa vittima; non trattandosi di una deflagrazione d’ira (che almeno è subito identificabile e magari oggetto d’immediata risposta, anche legale) difficilmente viene riconosciuta dalla vittima stessa e dai suoi famigliari; è gratuita e persistente, reiterata quotidianamente; ha la capacità di “annullare” la persona che ne è bersaglio; è un vero e proprio lavaggio del cervello; pone la vittima nella condizione di pensare di “meritarsi quella punizione”; 
  • è un comportamento messo in atto per minare alla base la fiducia che la vittima ripone in sé stessa, dei suoi giudizi di realtà, facendola sentire sbagliata, confusa fino a dubitare di stare impazzendo; è’ un’azione di manipolazione mentale con la quale il gaslighter (l’abusante) mette in dubbio le reali percezioni dell’altra persona; spesso è adottata dal coniuge abusante per chiudere rapporti coniugali travagliati dietro ai quali, molto spesso, si celano insoddisfazioni personali e relazioni extraconiugali.

Il gaslighting è una forma di violenza che si sviluppa anche all’interno di rapporti sufficientemente funzionali. Può accadere che un evento frustrante, al quale non si sa adeguatamente reagire, metta in crisi la fiacca sicurezza e la scarsa fiducia che ripone in sé il manipolatore tanto da pregiudicare irreparabilmente le dinamiche relazionali: il legame diventa maligno, si trasforma in una trappola che distrugge il cuore e la psiche della persona oggetto delle molestie. Così come le frecce del mitico Eracle, il gaslighting lascia ferite che nessuno potrà guarire. Una relazione di questo tipo è, in modo conclamato, narcisistico-perversa, una relazione, cioè, caratterizzata dalla presenza di un persecutore – che “deumanizza”, manipola, controlla totalmente, impedisce separatezza ed autonomia della vittima – e di una vittima che, dall’altra parte, si trova intrappolata nella rete per lei tessuta e che, lentamente, è portata ad abbandonare le proprie resistenze fino alla resa completa.  L’aspetto beffardo di questa manipolazione è che la vittima alla fine si trasforma inconsapevolmente nella complice del suo persecutore, contro sé stessa. In questo sprofondamento nell’abisso la vittima attraverserà, a grandi linee, tre fasi successive:

  1. distorsione della comunicazione: in questa prima fase la vittima non riuscirà più a capire il persecutore. I “dialoghi” saranno caratterizzati da silenzi ostili alternati da piccature destabilizzanti. La vittima si troverà così disorientata, confusa,  come nella nebbia.
  2. tentativo di difesa: in questa seconda fase la vittima cercherà appunto di difendersi, provando a convincere il suo persecutore che la verità è un’altra; proverà ad instaurare un dialogo ostinato, con la speranza che ciò serva a far cambiare il comportamento del gaslighter. La vittima si sentirà travolta da un compito diventato per lei basilare: far cambiare idea al persecutore, attraverso il dialogo e l’ascolto.
  3. depressione: in questa terza fase la vittima vedrà piano piano spegnersi il suo soffio vitale, non avrà più forze per lottare e si convincerà che ciò che il persecutore pensa e dice di lei  corrisponde alla verità.

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Sono classificabili tre tipi di manipolatore:

  1.  Il manipolatore affascinante: è probabilmente il più insidioso. Alterna silenzi ostili e tremende pungolature a momenti di intense profusioni d’ “amore”. Sottopone la sua vittima ad una continua doccia scozzese, creando, così,  artatamente, un’ atmosfera massimamente disorientante per la vittima.
  2. Il manipolatore bravo ragazzo: pensa solo a sé stesso ed è il classico lupo travestito da agnello. Sotto al travestimento si nasconde un tremendo individualista:  sempre attento ad anteporre i propri bisogni, il proprio tornaconto personale a quello della vittima, anche se riesce a dare un’impressione opposta.
  3. L’intimidatore: è il più diretto. Non si preoccupa di nascondersi dietro false facciate: rimprovera e maltratta apertamente la vittima. E’ più facile riconoscerlo.

Non vi sono parole per descrivere la sensazione di morte imminente che prova la persona colpita da questo tipo di maltrattamenti psicologici. Alla vittima è tolta la speranza del domani e ben presto manifesterà problemi psichici e psicosomatici.


 

Dott.ssa Silvia Darecchio  – Psicologa – San Polo di Torrile (Pr)  contatti