Tachicardia, paura, tremori, respiro corto, fame d’aria, confusione mentale, agitazione, disagio. In una parola: ANSIA. Sai di cosa parlo? Se convivi con l’ansia da poco o da tanto tempo, ho una proposta per te. Sappiamo, infatti, quanto sia difficile farcela da soli: UN PERCOSO CLINICO PSICO-EDUCATIVO ON-LINE
Se hai poco tempo da dedicare al tuo problema, ai tuoi dubbi, al cambiamento che vorresti nella tua vita, non devi certo rinunciare alla possibilità di fare qualcosa. La lunghezza di un percorso, infatti, non è sempre indice né di qualità né di efficacia. Per questo motivo ti propongo un percorso psico-educativopensato apposta per te, pensato cioè per tutte quelle persone che, come te, vogliono intraprendere il cammino verso una maggior consapevolezza di sè e delle proprie risorse, una miglior qualità di vita e quindi un maggior benessere, senza sorprese.
Da oltre 10 anni ascolto ed aiuto le persone, concretamente, ad uscire dalle situazioni difficili, a fronteggiare le sfide esistenziali e a riprogettare il futuro. In condizioni di incertezza posso aiutarti a superare le tue difficoltà, accompagnandoti verso una consapevolezza rinnovata delle relazioni che vivi, dei bisogni tuoi e degli altri, e del modo che hai di gestire i rapporti interpersonali. Posso aiutarti a ritrovare la serenità e il benessere tuoi, e della tua famiglia. Oltre al servizio di CONSULENZA ON-LINE E VIDEO-CONSULENZA ON-LINE ricevo nel mio studio in provincia di Parma per COLLOQUI IN PRESENZA
La medicina cinese dice di si. L’antica tradizione medica orientale considerava il gonfiore addominale alla stregua di un eccesso di ansia che non veniva espressa efficacemente e che, in modo involontario, era trattenuta all’interno del corpo. Oggi, grazie agli enormi passi fatti in ambito psico-neuro-immuno-endocrinologico, sappiamo che è davvero così. Pensiamo banalmente anche solo a come respiriamo, quando siamo stressati, ansiosi e agitati. Per la maggior parte del tempo respiriamo in modo affannato… anche quando mangiamo! Questo comporta l’ingestione di molta aria che, non potendo essere espulsa (perché “mangiata” e non semplicemente respirata), resta intrappolata nello stomaco e poi nell’intestino, causando appunto la cosiddetta “pancia gonfia”.
Attenzione quindi alla pancia gonfia! Potrebbe dirci tanto di come siamo e di come stiamo. Ma non solo…
Un cervello nella pancia
Pancia e stress hanno un legame molto complesso. Infatti non tutti sanno che abbiamo nell’ addome un “secondo cervello” responsabile della digestione, ovviamente, ma anche della produzione di dopamina e serotonina, neurotrasmettitori capaci di influenzare i nostri stati d’animo. Quindi le tensioni, i conflitti, le arrabbiature, lo stress emotivo si “accumulano anche nella pancia”, nel senso che gli stress vissuti determinano il rilascio, in quella zona, dei neurotrasmettitori che, a loro volta, influenzano il nostro umore.
C’è di più: incredibilmente il cervello “della pancia” pare essere dotato anche di una memoria. I due cervelli quindi, quello addominale e quello intracranico, creerebbero tra loro una via privilegiata di comunicazione, un asse di scambio di informazioni estremamente sensibile, capace di tenere in memoria gli eventi stressanti del nostro passato, anche molto lontano nel tempo. Questo spiegherebbe ad esempio il legame tra le coliche della prima infanzia e lo sviluppo in età adulta della sindrome del colon irritabile.
PER APPROFONDIRE Intestino e cervello “dialogano” fittamente tra loro, questo perchè anche nell’intestino è presente una piccola quantità di cellule neuronali che, influenzate da fattori interni ed esterni (ad esempio le emozioni), rilasciano ben il 95% della serotonina totale. La serotonina, detta anche “ormone della felicità”, è appunto il neurotrasmettitore che regola gli stati d’animo e quindi l’umore; essa porta con sè delle informazioni destinate direttamente al sistema limbico del cervello, che deve rielaborarle. Se la persona sperimenta emozioni negative, associate a stati di ansia, di paura o di tensione, il cervello “ordina” all’intestino di rilasciare altra serotonina, tuttavia questo intervento ha delle ripercussioni sulla funzionalità dell’apparato digestivo: la muscolatura addominale si contrae provocando tensione, gonfiore, crampi, diarrea o stitichezza, spasmi e crampi. Avere la muscolatura addominale contratta nella zona diaframmatica significa, invece, avere una digestione rallentata e problematica (la dispepsia). Non solo: le emozioni negative e lo stress, oltre ad avere ripercussioni sull’intestino, agiscono anche sullo stomaco, inducendo una ipersecrezione di acido cloridrico che, se cronica, può portare ad infiammazione delle mucose, terreno fertile per fastidiosi bruciori, gastrite e addirittura ulcere.
Il fastidioso senso di pancia gonfia, le difficoltà digestive, gli episodi frequenti di diarrea potrebbero quindi avere un’origine psicosomatica. Tra i sintomi, sempre più frequenti, che le persone portano ai loro medici di base vi sono:
pancia gonfia;
stomaco gonfio;
stitichezza;
diarrea;
nausea;
dolori addominali;
crampi;
meteorismo;
flatulenza;
digestione rallentata.
Al perdurare di questi sintomi il medico di base risponde con doverose e preziose indagini diagnostiche finalizzate alla scoperta delle cause organiche che potrebbero portare ad avvertire questi disturbi, tra esse:
intolleranze alimentari;
allergie;
infiammazioni;
calcoli biliari;
ulcere;
diverticoli;
polipi intestinali.
Tuttavia abbiamo visto come un addome costantemente gonfio e affaticato non sempre dipenda da una patologia di tipo organico. Abbiamo spiegato infatti quanto sia stretta la correlazione tra le emozioni negative, lo stress e i disturbi gastrointestinali. Proprio per questo quindi, una volta che gli esami diagnostici hanno escluso un’origine patologica dei sintomi, è importante e utile cercare di lavorare sul nostro stato psicologico e sulle modalità che usiamo per affrontare la quotidianità, i problemi e le relazioni. Vale la pena fare un bilancio sulla quantità di stress che il vivere la nostra vita comporta e provare a trovare soluzioni valide per fronteggiarlo al meglio, riuscendo ad evitare così pericolose e insidiose somatizzazioni.
Hai anche tu problemi gastrointestinali? Hai un stile di vita stressante? Ti fai carico di tutto e di tutti? Tendi a “sentire tutto nella pancia”? NON SOTTOVALUTARE UNA SOLUZIONE PSICOLOGICA!
Come psicologa posso aiutarti a superare le tue difficoltà, accompagnandoti verso una consapevolezza rinnovata di te, dei tuoi bisogni, delle tue priorità, del tuo modo di “funzionare” e di affrontare i problemi. Posso aiutarti a ritrovare la serenità e il benessere psico-fisico anche grazie alla proposta di tecniche di gestione dello stress. Da più di 10 anni, attraverso i servizi di consulenza on-line e dicounseling in studio, ascolto ed aiuto le persone concretamente ad uscire dalle situazioni difficili, a fronteggiare le sfide esistenziali, a superare gli ostacoli e a riprogettare il futuro. Dott.ssa Silvia Darecchio – contatti
Condividere i propri sentimenti e le proprie emozioni con gli altri, positivi o negativi che siano, fa sempre bene. Se i sentimenti o le emozioni sono positivi fa bene, perché il raccontare l’emozione produce un effetto “volumizzante” , facendoci sentire ancora più felici e gioiosi; se i sentimenti sono negativi, invece, accade che esponendo le nostre paure, le arrabbiature, le tristezze, le angosce, ecc…. evitiamo di sfuggirle, aumentiamo la possibilità di osservarle con maggiore distacco riuscendo a di vederle per quello che sono e aumentiamo le probabilità di assumercene pienamente la responsabilità. Quando parliamo dei nostri sentimenti e delle nostre emozioni negative permettiamo loro di diminuire, se invece legiudichiamo come inopportune, ce ne vergogniamo e tentiamo di eliminarle, come fossero macchie indesiderate, non facciamo altro che farle aumentare. Perciò tutte le volte in cui diciamo a noi stessi che non dovremmo sentirci in un dato modo, aumentiamo la nostra pressione interna, il nostro stato di ansia e di malessere e quindi l’emozione negativa. All’opposto condividere il nostro stato emotivo, accettarlo per quello che è, lasciare che abiti il nostro corpo, fanno si che ne diminuisca l’intensità.
Condividere con qualcuno il nostro sentimento negativo ci permette di vedere la nostra situazione da altri punti di vista, spesso meno catastrofistici del nostro. Ogni volta che sentiamo dentro un “groppo”, un fardello, un blocco che non ci permettono di pensare con chiarezza e ancor meno di agire in modo efficace, è conveniente condividerli. Potremo farlo con il nostro migliore amico, un genitore oppure uno psicologo*. Chiunque sia la persona, il suggerimento è di non tenersi dentro il sentimento o l’emozione negativi.
2. Parlare dei problemi è ok!
Parlare dei propri problemi aiuta ed è un modo efficace di riprendersi dalle difficoltà. Tuttavia, quando siamo alle prese con un problema, a causa di pregiudizi e di paure potremmo essere portati a non parlarne con nessuno. Questo può accadere perchè, mostrando quelle che riteniamo essere delle vere e proprie debolezze, proviamo pudore, oppure perchè quando siamo in difficoltà, pensiamo che sia giusto “essere forti” e mostrare agli altri il nostro lato “più maturo”. Invece esistono validissimi motivi per superare il timore di mostrarci fragili e parlare dei nostri problemi con qualcuno di fidato, vediamoli:
parlarne è un modo per “nutrire” le relazioni: la persona che riceverà le nostre confidenze si sentirà importante, in una posizione complementare e di grande responsabilità rispetto alla nostra vita. Attraverso la nostra scelta le dimostriamo stima e fiducia e questo non farà altro che fortificare la relazione. Quando parliamo del nostro problema, fondamentalmente mettiamo a confronto e usiamo due modi di ragionare, per trovare insieme una soluzione che possa portare sollievo o metta fine alle nostre difficoltà;
parlarne rappresenta una preziosa occasione per migliorare il rapporto che abbiamo con noi stesi. Riusciamo infatti a mettere a nudo il nostro modo di essere, quando ragionando in modo autentico con una persona fidata. Non dobbiamo sforzarci di apparire forti dato che, la maggior parte delle volte, abbiamo solo bisogno di rivelarci per quello che siamo veramente, senza finzioni, senza maschere, senza sovrastrutture, senza difese. È solo attraverso il confronto autentico con un altro fidato, che possiamo accettarci completamente per quelli che siamo, che riusciamo a fare spazio anche a quei “difetti inaccettabili e inesprimibili” che di solito ci fanno “tenere tutto dentro”. Il nostro cervello ha bisogno di situazioni concrete, ha bisogno di “srotolarsi”, di misurarsi con sè stesso e con altri cervelli, per capire profondamente fino a che punto può spingersi coi pensieri, i ragionamenti, le ipotesi e le elucubrazioni. Trovare una persona fidata, che sia in grado di capirci, è molto importante, perchè la mente dell’altro funziona come un potente argine: qualunque cosa si dirà, il fatto che l’altro la conterrà, ci farà sentire al sicuro. Se riusciremo ad essere autentici nel confronto con una persona fidata, potremo ritrovare un senso di linearità in noi e potremo riscoprire il valore del nostro vero Io.
“Il sempre sospirar nulla rileva.“
Francesco Petrarca
3. Parlarne fa bene, lamentarsi (magari per anni e della stessa cosa) NO.
!!!!! ATTENZIONE!!!!!! NO ALLE LAMENTELE INFINITE!!!!!
“Odio il mio lavoro”, “Il mio corpo non mi piace”, “Questi amici mi trascurano, sono sempre io che li cerco”, “La mia relazione di coppia non mi soddisfa più”, “Questa città, questo quartiere, questa casa, mi stanno stretti ”, ecc… ecc…
Leggendo queste frasi, per ciascuna di queste situazioni la soluzione sembrerebbe essere scontata: “Non ti piace il tuo lavoro? Cambialo!” , “La città in cui vivo ha poco da offrirmi? Vado a vivere in un’altra città!”, ecc…. accade invece che il tutto non sia così semplice. In situazione analoghe, la tendenza potrebbe essere quella di creare e, soprattutto, di mantenere conflitti interiori tra la soluzione, che potrebbe risolvere il tormento emotivo, e l’omeostasi (la tendenza a lasciare tutto immutato, all’insegna del : “chi lascia la strada vecchia per la nuova…”). Le persone di fronte a problemi personali o lavorativi, spesso preferiscono parlarne e lamentarsene a lungo, senza arrivare ad una vera soluzione, che comporterebbe una coraggiosa assunzione di responsabilità rispetto alla propria vita.
In tutto questo processo c’entrano molto le paure (paura del cambiamento,delle emozioni, di non esserne capaci, di cambiare idea, di pentirsene, di sbagliare, di essere giudicati, di non essere felici, di fallire ecc…) e il coraggio di affrontarle. Queste paure sono del tutto legittime e normali, tuttavia, se ci rendiamo conto di aver passato gli ultimi mesi a lamentarci, chiediamoci: cosa abbiamo ottenuto? con l’auto-commiserazione quale soluzione abbiamo trovato? In tutto questo abbiamo potere decisionale o davvero non possiamo farci nulla? Certamente la soluzione non è sempre semplice, spesso infatti risolvere lo stallo richiede tempo, pianificazione, impegno e fatica. Tuttavia, esistono alternative? Quello che possiamo fare a partire da oggi è programmare gli obiettivi che, passo dopo passo, ci porteranno al cambiamento desiderato. Dicevamo che le persone cercano il coraggio. Le persone che si rivolgono allo psicologo* spesso lo fanno perché si trovano in fasi conflittuali e di stallo. Quando decidono di chiedere aiuto ad un professionista lo fanno apparentemente con la speranza di trovare una soluzione inedita al loro problema, tuttavia, capita molto spesso che la soluzione definitiva, in realtà, le persone l’abbiano già presa dentro loro stesse da tanto tempo e indipendentemente dall’intervento di un esperto. Quello che invece tacitamente chiedono è di aiutarle ad avere il coraggio di compierla. Ciò che vale la pena chiedere alle persone vicine o ad uno psicologo*è un supporto caldo e forte mentre, con coraggio, si realizza la soluzione giusta, già individuata. Solo in questo modo, infatti, si interrompe il circolo vizioso del “lamentarsi all’infinito”.
Come psicologa, oltre al servizio di consulenza online per chi non vive in Emilia, ricevo in studio a San Polo di Torrile (Parma). Da oltre 10 anni ascolto ed aiuto le persone, concretamente, ad uscire dalle situazioni difficili, a fronteggiare le sfide esistenziali e a riprogettare il futuro.
In condizioni di sofferenza psicologica posso aiutarti a superare le tue difficoltà, accompagnandoti verso una consapevolezza rinnovata di te, dei tuoi bisogni, delle tue priorità e del tuo modo di “funzionare”. Posso aiutarti a ritrovare la serenità e il benessere, anche grazie alla proposta di tecniche di gestione dei pensieri intrusivi e disfunzionali e di gestione dello stress.
In Italia, dopo settimane di relativa calma dall’annuncio dell’esistenza nel mondo di una nuova forma virale, si è scoperto, grazie (purtroppo) alle gravi condizioni di salute del povero “paziente 1”, che il virus stava già da tempo diffondendosi pressoché indisturbato tra la popolazione del nord del Paese. In pochi giorni la situazione ha rivelato i suoi veri contorni, fino a rappresentare, per le Regioni colpite, una vera e propria emergenza sanitaria, sociale, psicologica ed economica.
Ma cos’è un’emergenza? Con il termine emergenza, ci si riferisce solitamente a tutte quelle situazioni impreviste ed improvvise che possono minacciare l’integrità fisica e psichica dell’individuo.
Sappiamo tutti quanto, molto spesso, emergenza significhi ANSIA.
ANSIA
L’esperienza dell’epidemia di un virus sconosciuto, di cui sappiamo poco e comunque non abbastanza, rappresenta un ottimo esempio di minaccia oggettiva alla quale è normale reagire con paura e, nei limiti, con ansia. L’ ansia è, infatti, l’emozione tipicamente umana provata di fronte ad una minaccia percepita. A ben vedere l’ansia e la paura sono sostanzialmente la stessa cosa ma, mentre la paura può essere intesa come la valutazione automatica di una minaccia o di un pericolo reali, l’ansia è un sistema di risposta più complesso, che coinvolge fattori cognitivi, emotivi, comportamentali e fisiologici. Per chiarire, la paura è quella che sperimentiamo quando uno stimolo oggettivamente pericoloso mette a repentaglio la nostra incolumità: si reagisce con paura, ad esempio, quando un cane ringhiante compare improvvisamente sul nostro cammino. L’ansia, invece, è quella che potremmo provare in una dimensione di controllo e previsione: quando immaginiamo di vivere situazioni, per noi paurose, che non abbiamo ancora vissuto o quando ricordiamo – riattualizzandole – situazioni del passato in cui abbiamo avuto paura. La paura è nel “qui e ora”, l’ansia è nel “prima o dopo”. Sia l’ansia che la paura sono state esperienze fondamentali per la sopravvivenza della specie umana, poiché hanno preparato e preparano l’organismo a rispondere alle minacce e al pericolo. Sono risposte normali e innate di attivazione, caratterizzate da un aumento della vigilanza e dell’attenzione con l’obiettivo di prepararci ad affrontare la minaccia predisponendoci a una risposta di attacco o fuga.
Tuttavia facciamo attenzione ai pensieri, alle emozioni, ai comportamenti di ansia perché l’ansia ad alti livelli, pur con l’intenzione di preservare la nostra integrità, non sempre è una buona consigliera, anzi, con facilità può portare a risultati paradossalmente disfunzionali (nel nostro caso: affollamenti nei supermercati, fughe in massa dalle “zone rosse”, ecc…).
Per comprendere meglio il complesso fenomeno dell’ansia è necessario operare un’ulteriore distinzione tra ansia fisiologica (preoccupazione ed elevato stato di attivazione rivolti al passato e al futuro per una situazione percepita come minacciosa) ed ansia patologica (preoccupazione ed elevato stato di attivazione che perdura per la maggior parte della giornata, delle settimane e dei mesi indipendentemente dalla situazione vissuta). Mentre l’ansia fisiologica può prepararci ad affrontare una prova per noi difficile, l’ansia patologica è per lo più disfunzionale perché, essendo persistente e intensa, interferisce con il nostro modo di fronteggiare le difficoltà, portando a considerare come pericolosi eventi che in realtà non lo sono.
Cosa succede se prendiamo decisioni quando proviamo livelli d’ansia troppo elevati? Perché, quando decidiamo qualcosa con elevati livelli di ansia, abbiamo la tendenza a scegliere l’opzione peggiore?
SINTOMI COGNITIVI DELL’ANSIA
Dal punto di vista cognitivo i sintomi tipici dell’ansia sono:
il senso di vuoto mentale;
un senso crescente di allarme e di pericolo;
l’induzione di immagini, ricordi e pensieri negativi;
la messa in atto di comportamenti protettivi cognitivi;
la sensazione marcata di essere al centro dell’attenzione altrui.
UNO STUDIO INTERESSANTE: L’ANSIA ECCESSIVA NON E’ UNA BUONA CONSIGLIERA
Uno studio pubblicato sulla rivista Nature Neuroscience, realizzato da un équipe di ricercatori dell’Università di California a Berkeley e dall’Università di Oxford, suggerisce che gli elevati livelli di ansia e di stress (la risposta di attivazione del sistema nervoso autonomo prolungata nel tempo) presentano una serie di effetti indesiderati che possono interferire nella realizzazione di molti compiti, rendendo anche le faccende quotidiane una vera impresa. Tra queste, il compito di prendere decisioni in un contesto di incertezza.
Lo studio succitato ha provato che le persone che sperimentano alti livelli di stress e ansia tendono:
a concentrarsi sugli aspetti negativi,
a pensare in modo catastrofico,
a rendere piccoli problemi enormi minacce,
ad avere una maggiore difficoltà a leggere e ad interpretare i segnali ambientali.
I ricercatori hanno lavorato con 31 partecipanti che presentavano diversi livelli d’ansia e attraverso misure fisiologiche, misure di comportamento e modelli computazionali, ne hanno valutato l’ abilità nel prendere decisioni probabilistiche. Tra i metri di giudizio dei ricercatori, c’è stato anche un segmento oculare per calcolare la dilatazione della pupilla (un indicatore del fatto che il cervello secerne norepinefrina, la quale aiuta a inviare segnali a diverse regioni del cervello per aumentare la veglia e la disposizione ad agire).
Le persone fortemente ansiose hanno avuto maggiori problemi ad adattarsi rispetto a quelle meno ansiose. Tra i partecipanti più ansiosi è stata inoltre più debole la risposta pupillare, suggerendo un fallimento nel processare l’informazione che cambia a grande velocità (le pupille si dovrebbero invece dilatare quando, in ambienti mutevoli, acquisiamo nuove informazioni).
I ricercatori suggeriscono che questo indica una relazione tra l’ansia e una scarsa abilità nel prendere decisioni in situazioni mutevoli oltre a presentare maggiori difficoltà nel leggere i segnali ambientali (di volatilità o di stabilità), che possono aiutare ad evitare un risultato negativo. I risultati dello studio parlano per i soggetti più ansiosi, di un errore nei circuiti di ordine superiore del cervello deputati a prendere decisioni.
QUARANTENA: NON SOLO ANSIA
Alcuni ricercatori del King’s College, analizzando la letteratura a disposizione, hanno rilevato che le popolazioni sottoposte a quarantena tendevano a riportare, in generale, diversi sintomi psicologici, tra questi:
IMPATTO PSICOLOGICO SULLE DIVERSE FASCE DI POPOLAZIONE
I ricercatori hanno anche cercato di capire, sempre studiando la letteratura disponibile sul tema, se ci fossero delle caratteristiche individuali o demografiche che favorissero l’insorgere di questi sintomi. Emergeva chiaramente che i soggetti più colpiti erano i medici e gli staff ospedalieri (un rischio già evidente è che potremmo assistere a molti casi di burnouttra il personale che è in prima linea nel contrastare l’emergenza covid-19), così come i soggetti in giovane età.
Altre fasce della popolazioni più a rischio, come evidenziano i Centers for disease control and prevention statunitensi (Cdc), sono:
gli anziani,
i cittadini con malattie croniche,
le persone che già soffrono di disturbi mentali (anche lievi).
Si hanno ancora pochi dati sull’impatto psicologico che la quarantena può avere sui bambini, che in queste settimane sono costretti a restare in casa, lontani dalla scuola.
Che cosa peggiora la quarantena
Esistono, nella letteratura scientifica, delle evidenze che portano a considerare certi stimoli esterni come fonti di ulteriore stress e di peggioramento della condizione psicologica legata alla quarantena, i cossiddetti “stressor”. Tra questi, gli stressor più diffusi sono:
la durata della quarantena,
la paura di essersi contagiati,
la paura di poter contagiare i famigliari,
la noia,
la frustrazione,
l’essere privi di beni necessari (alimentari, per la salute, legati all’informazione),
la mancanza di chiarezza (in particolare sui diversi livelli di rischio).
Esistono poi fattori di rischio che possono aumentare la probabilità di avere difficoltà psicologiche, una volta finita la quarantena. In particolare, i ricercatori si sono concentrati sul quantificare gli effetti causati dalle perdite economiche e dallo stigma sociale che vivevano i soggetti isolati una volta liberi. E’ emerso che chi ha livelli di reddito più bassi mostra una necessità di supporto maggiore, sia economico che psicologico, durante e dopo i periodi di quarantena.
Se questa emergenza sanitaria e psicologica, rappresentata dall’ epidemia di COVID-19, ha risvegliato in te uno stato d’ansia antico o nuovo; se ti rendi conto che ti mancano, o stanno venendo meno, gli strumenti psicologici per fronteggiare la quotidianità; se non riesci a riposare perchè il tuo stato di attivazione interno non ti consente il rilassamento; se piangi spesso; se ti senti tormentato da pensieri scuri che non ti lasciano mai; se pensi di soffrire di un Disturbo Acuto da Stress puoi chiamare il 3206259427.
Da oltre 10 anni ascolto ed aiuto le persone, concretamente, ad uscire dalle situazioni difficili, a fronteggiare le sfide esistenziali e a riprogettare il futuro. In condizioni di incertezza posso aiutarti a superare le tue difficoltà, accompagnandoti verso una consapevolezza rinnovata delle relazioni che vivi, dei bisogni tuoi e degli altri, e del modo che hai di gestire i rapporti interpersonali. Posso aiutarti a ritrovare la serenità e il benessere tuoi, e della tua famiglia. Oltre al servizio di CONSULENZA ON-LINE E VIDEO-CONSULENZA ON-LINE ricevo nel mio studio in provincia di Parma per COLLOQUI IN PRESENZA
“HO PAURA DI FALLIRE”: il pessimismo potrebbe nascondere la convinzione di non avere diritto a ricevere aiuto. Questo pensiero rivela un grave deficit dell’autostima, che porta spesso il soggetto a ritenersi una nullità, una persona inutile e incapace, indegna di qualsiasi tipo di felicità. È come entrare in un circolo vizioso in cui l’autopunizione mentale sembrerebbe essere l’unico rimedio al proprio senso di colpa.
“HO PAURA DI APPARIRE DEBOLE”: per altri, accettare di non potercela fare da soli e richiedere l’aiuto di un professionista può risultare irritante, offensivo. Anche queste persone, seppur in un’ottica diametralmente opposta, sentono la loro autostima fortemente sotto attacco.
La paura che sottostà a questi due tipi di pensiero così diversi, in realtà, è la medesima: la paura del fallimento.
Per non correre questo rischio, spesso è più semplice pensare che i problemi si risolvano da soli, che il periodo passerà, che l’ansia se ne andrà… Il fatto di dover chiedere aiuto, per moltissime persone rappresenta un fallimento. In realtà, decidere di affrontare un percorso psicologico denota un grande coraggio, la voglia di mettersi alla prova e di ricominciare, il reale desiderio di stare meglio, e, soprattutto, la forza di credere in se stessi. E questo rappresenta una vittoria, già in partenza.
IL DOLORE COME “COPERTA DI LINUS”: anche se riconosciamo l’inadeguatezza di certi nostri pensieri e comportamenti che, in definitiva, ci causano insoddisfazione, senso di fallimento e dolore, siamo sempre molto restii a modificarli. Essi infatti ci accompagnano da una vita intera, fanno parte di noi, ci fanno sentire al sicuro e rappresentano l’ “individualità” da portare nel mondo e per la quale il mondo ci riconosce. Il cambiamento, da questo punto di vista, prefigura una dolorosa separazione da qualcosa di familiare, da qualcosa che siamo capaci di gestire, anche se provoca disagio e sofferenza in noi e nelle persone che ci circondano.
IL DOLORE COME UNICA CERTEZZA: il timore è, per tante persone, quello di mettere in discussione un equilibrio faticosamente raggiunto, per altre è quello di andare verso l’ignoto, poiché non si ha la garanzia di cambiare in positivo: il cambiamento, di per sé, rappresenta un rischio. Altri pensano che sia meglio “non toccare alcuni tasti”, per paura che la situazione peggiori.
DOLORE E VITA COME SINONIMI: talvolta, la paura del cambiamento può essere celata dal pessimismo. Tante persone sono convinte che niente e nessuno potrebbero aiutarle a risolvere i loro problemi, ai quali non c’è soluzione.
Bisogna tener presente che la mente tende sempre a salvaguardare i pensieri che genera, anche se negativi, piuttosto che a confutarli. Questa trappola non ci consente di affrontare il disagio ma, al contrario, mantiene la situazione di difficoltà in un equilibrio fragile e precario.
Lo psicologo fa in modo che possano essere elaborati anche i temi più complessi, in uno spazio privato, protetto e condiviso, accompagnando e sostenendo la Persona lungo questo percorso impegnativo ma necessario.
È un tema sempre molto dibattuto: saggi, film, conferenze, spettacoli, ecc… si occupano, a vario titolo, della cosiddetta “crisi dell’identità maschile”.
L’ uomo, oggi, è chiamato ad accrescere la propria consapevolezza circa l’ipersensibilità, l’emotività e l’insicurezza che riconosce in sé stesso e che spesso, a causa di fraintendimenti culturali e personali, non sa come gestire. Tali parti psichiche, in passato definitivamente rinnegate, rappresentano, in realtà, il prodotto di un arricchimento psicologico, avvenuto grazie al contatto, realizzatosi nella rivoluzione sessuale degli ultimi decenni, con la parte femminile, creativa, inconscia, irrazionale del proprio mondo interiore. Un incontro, quello con la parte “esotica” di sé” che, essendo nuovo e ancora tutto da esplorare ed elaborare, crea malesseri, paure e incertezze sconosciute all’uomo di un tempo, in apparenza più forte, in realtà, inevitabilmente più rigido e incompleto.
Parte maschile e parte femminile in dialogo
L’ aumentata consapevolezza, che è sempre auspicabile, in questo caso, permetterebbe agli uomini di affrontare la nuova esperienza di sé con maggiore serenità. Questa integrazione (tra maschile e femminile) non può avvenire, però, miracolosamente da sola: è qualcosa che bisogna volere, qualcosa per cui è necessario allenarsi quotidianamente. Una fatica che molti uomini non riescono a portare a termine perché non sanno che il loro “essere uomini” va costruito giorno per giorno, attraverso un dialogo costante fra la parte razionale (maschile) ed emozionale (femminile). Tuttavia sono proprio la determinazione a non arrendersi alla fatica del “dibattito interiore” e l’ impegno a tenerlo sempre acceso, nonostante le difficoltà affettive e psicologiche della vita, il centro dell’identità dell’ uomo contemporaneo.
Maggior equilibrio tra maschile e femminile
Ecco tre comportamenti che agevolano e promuovono il dialogo interiore:
Ascoltare le emozioni
Alla donna viene più naturale essere in contatto con le proprie emozioni; per l’uomo è culturalmente più difficile. Però è necessario per completarsi come persone. Le emozioni non vanno ignorate, in nome dello stereotipo del “duro”, ma ascoltate, riconosciute e codificate correttamente.
Evitare il sentimentalismo
Come non bisogna ignorare le emozioni, così non bisogna lasciarsene travolgere. Dubbi, paure, sconforto, delusioni, arrivano per completarci, non per annientarci. Cadere nel sentimentalismo, infatti, può portare ad un lamentio sterile e alla ricerca continua di comprensione “materna”.
Superare il narcisismo
Seguire le proprie passioni perché piacciono e non per amore dell’ esibizione, per la ricerca dell’applauso e della conferma. In questo modo si crea un collegamento tra le emozioni e le azioni, una coincidenza, una coerenza che promuove e fortifica il senso di identità.
Dott.ssa Silvia Darecchio – Psicologa – San Polo di Torrile (Pr) contatti
La paura di invecchiare è una paura molto umana, un sentimento diffuso, esteso tanto alla popolazione femminile quanto a quella maschile. Il modo di affrontare questa paura, tuttavia, non è lo stesso per tutti, in alcuni casi, infatti, può assumere le forme della patologia.
Quando si parla di “vecchiaia” è necessario distinguere fra la terza età (detta anche “prima vecchiaia” fino ad 80 anni) e la quarta età (detta anche “grande vecchiaia”). E’ la vecchiaia della terza età ad essere maggiormente interessata dal fenomeno patologico. La gerascofobia (la fobia di invecchiare) è un disturbo, studiato a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, che colpisce molti individui delle età più disparate, ma che si manifesta, con maggior forza, superati i 50 anni.
IL SEGRETO PER VIVERE UNA VECCHIAIA SERENA, SECONDO LO PSICOLOGO E. ERIKSON
Dopo i 50 anni è naturale iniziare a confrontarsi con il bilancio di quanto si è realizzato nella propria vita ed è, altrettanto naturale, provare un certo grado di angoscia nel rendersi conto di non aver raggiunto tutti i traguardi, professionali e personali, che ci si era prefissati. Erikson (Teoria Psicosociale dello Sviluppo da i I cicli della vita, 1987), a tal proposito, ha scritto che più la persona si avvicina alla senescenza, più raccoglie quanto ha seminato; più cerca di capire ciò che la sua esistenza abbia significato per sé e per gli altri; più tende a valutare quanto tali conclusioni siano soddisfacenti. Quando il bilancio è positivo, l’individuo ha la sensazione di aver speso adeguatamente la propria vita e, per questo, riesce ad affrontare con serenità anche la terza età. Nel caso in cui il bilancio sia negativo, la persona è portata a sperimentare sentimenti di rifiuto rispetto alla propria esistenza, di negazione della vecchiaia e di timore della morte. In questi casi, dice Erikson, prevale un senso di disperazione derivato della consapevolezza di non avere più tempo per rimediare agli errori commessi; tale disperazione è celata, spesso, dietro al disprezzo verso le persone, le istituzioni, le situazioni, vissuti che, in realtà, riflettono il disprezzo che l’individuo prova verso se stesso.
FATTORI PREDISPONENTI LO SVILUPPO DELLA GERASCOFOBIA
Vi sono diversi fattori, sociologici e psicologici, che possono “predisporre” a sviluppare la gerascofobia (o gerontofobia). I soggetti più inclini a sviluppare questa fobia sono coloro che:
già soffrono di disturbi d’ansia (soprattutto fobie);
hanno significativi tratti narcisistici o soffrono del Disturbo Narcisistico di Personalità (o di altri disturbi di personalità o mentali);
fanno della bellezza, dei valori estetici, delle capacità fisiche (ma anche delle facoltà intellettuali) armi per rivendicare un proprio posto nel mondo e per imporsi nelle relazioni umane;
hanno il terrore di rimanere soli;
fanno della propria indipendenza un punto di forza e tendono a considerare l’invecchiamento solo come una condizione di progressiva perdita di autonomia;
tendono a non considerare gli aspetti più positivi della terza età (come una maggiore flessibilità del tempo a disposizione, una più intensa spiritualità e una certa saggezza);
provano, più genericamente, una profonda paura nei confronti della sofferenza fisica;
hanno il terrore della morte, vissuta come emblema della totale perdita di tutto ciò che si è amato e si ama.
Si parla di gerascofobia ogni volta che, da una funzionale destabilizzazione causata dal cambiamento, rappresentato dalla senescenza, si arriva ad una “fobica” ed esasperata paura; accompagnata dall’ ossessiva, ripetuta e incontentabile ricerca di stratagemmi per allontanarla dalla mente (con eccessi esasperati di strategie cosmetiche o chirurgiche o di “ritocchini” estetici o di diete o di farmaci, ma anche ricorrendo all’ isolamento e/o alla maniacale ricerca di nascondere l’età ecc.). In tali casi, possono associarsi alla gerascofobia anche stati di panico, vertigini, e ansia costante, chiari sintomi di uno stato psichico che è al di fuori del cerchio di una quotidiana tensione. Se le paure sono allargate e le idee ricorrenti, verso un confine incalzante e da contenere, sarebbe bene ricorrere ad aiuti clinici di vario tipo.
FATTORI PSICOLOGICI CHE, DURANTE LA VECCHIAIA, PORTANO A RICORRERE ALLA CHIRURGIA ESTETICA.
Come si diceva, la gerascofobia è la paura (persistente anormale e ingiustificata) di invecchiare; classificata tra le fobie specifiche. Può essere associata al timore di restare soli, senza risorse e incapaci di provvedere a se stessi. Nell’intento di allontanare dalla mente, il più possibile, la vecchiaia, questa fobia può portare a ricorrere anche alla chirurgia estetica. La crescente diffusione, nella terza età (e non solo), dei trattamenti chirurgici estetici, può essere attribuibile a molteplici fattori:
l’evoluzione delle ricerca medica, che ha reso le procedure chirurgiche sempre più sicure e meno invasive,
il ruolo che i mass media attribuiscono ai canoni estetici di bellezza sempre più ideali,
l’insoddisfazione legata all’immagine corporea.
Negli ultimi anni, sono stati condotti numerosi studi volti ad approfondire il ruolo che i fattori psicologici esercitano nel ricorrere alla chirurgia estetica.
Fattori psicologici predisponenti
Disturbo di Dismorfismo Corporeo (o altre psicopatologie con sintomatologia simile): la cui caratteristica principale è l’estrema insoddisfazione per la propria immagine corporea;
disturbi mentali di diverso tipo: il 47,7% dei pazienti che ricorrono ai trattamenti chirurgici estetici, soffre di disturbi mentali (soprattutto di Disturbi di Personalità ma anche di ansia e di depressione).
Disturbi di Personalità (elevata prevalenza): il Disturbo Narcisistico di Personalità è stato rilevato nel 25% dei pazienti che ricorrono alla chirurgia estetica, mentre il Disturbo Istrionico di Personalità è stato rilevato nel 9,7% dei casi.
Altri fattori (legati soprattutto alla cessazione dell’attività lavorativa)
l’ emergere di un vissuto di esclusione dalla vita sociale;
i cambiamenti radicali, nell’assetto di vita di un individuo, vissuti con ambivalenza: da un lato come una liberazione dagli obblighi e dai vincoli, dall’altro come fonte di profonda destabilizzazione;
la deflessione del tono dell’umore con sentimenti di tristezza e vuoto;
(non potendo più servirsi del lavoro anche come strumento di “allontanamento” dalla parte più intima di sé) il ritrovarsi a contatto con se stessi e con i propri stati emotivi, talora dolorosi. Può accadere che ciò avvenga, tutto ad un tratto, nella fase della senescenza e che la persona sia poco preparata a gestirli.
In tali condizioni è possibile che la persona, sguarnita di altri strumenti, ricorra alla chirurgia estetica per “anestetizzarsi”, per non dover affrontare, cioè, stati emotivi dolorosi, connessi al processo di invecchiamento. D’altra parte, se l’individuo ricorre ai trattamenti chirurgici estetici, con un tale assetto psicologico, è probabile che l’insoddisfazione permanga. E’ infatti più verosimile, che l’insoddisfazione non riguardi tanto il corpo, quanto piuttosto un più generico vissuto personale, legato al mondo interiore dell’individuo.
In conclusione, di tutte le sfide cui è sottoposto l’individuo nel corso del proprio percorso evolutivo, quella della vecchiaia è la più umana. L’uomo, infatti, lungi dall’arrendersi al trascorrere del tempo, gioca con la vecchiaia una complessa partita, anche mediante strategie di compensazione. A qualunque età, infatti, sarebbe bene non lasciarsi dirigere dalle paure, ma cercare di indagarle, affrontarle e, magari, risolverle. Dove da soli sia possibile, è utile approdare ad una lucida e ragionevole accettazione dei cambiamenti, anche con l’aiuto di semplici strategie comportamentali:
non isolarsi;
chiedere e integrare le proprie con le altrui forze, riducendo le aspettative di cavarsela sempre e comunque da soli;
parlare con maggiore serenità di sé e del proprio status in divenire, utilizzando anche l’umorismo, per esempio;
ridurre o contenere l’ aggressività;
ridurre gli stati di eccessiva tristezza.
Dott.ssa Silvia Darecchio – Psicologa – San Polo di Torrile (Pr) contatti
Il genitore narcisistaè un genitore che tende ad avere, con il figlio, un legame prevalentemente di tipo possessivo. Il senso di possesso (di estensione) porta il genitore a rispondere, più o meno consapevolmente, con invidia e/o rabbia ai tentativi del figlio di guadagnare un maggior grado di autonomia e di affrancamento psicologico. Queste legittime spinte verso l’ autodeterminazione verranno, quindi, sabotate a scapito della serenità e del benessere del figlio. Negli scambi relazionali i genitori narcisisti usano soprattutto la critica e la svalutazione: strategie manipolative attuate in nome di una presunta “forma di amore” (la manipolazione mentale e ogni altro atto abusante, messi in pratica per minare la fiducia e la capacità di giudizio della vittima sono puniti dall’ art. 571 del codice penale).
Mentre un genitore “sufficientemente buono” ha una sicurezza in sé tale da consentirgli di riconoscere ai figli una ragionevole autonomia psicologica, un genitore, che soffre del Disturbo Narcisistico di Personalità, tende ad aver bisogno di indirizzare il figlio verso obiettivi (successo, bellezza, fama, prestigio sociale, ricchezza, ecc…) che lui stesso ha a cuore, senza considerare se questi soddisfino, o meno, le necessità e la personalità del figlio. Questa etero-direzione può portare il bambino prima e l’adolescente poi a considerare le esigenze emotive altrui più importanti delle proprie, fino a negare di avere dei bisogni o a confondere le priorità altrui con le proprie, perdendo inevitabilmente, in questo modo, le energie per una sana e serena affermazione di sé.
Lo psicologo americano Alan Rappoport nel suo articolo “Co-Narcissism: How We Accommodate to Narcissistic Parents”, oltre a definire le caratteristiche di personalità dei genitori narcisisti, introduce anche il termine “co- narcissism” (co-narcisismo) per riferirsi al modo con cui i figli si adattano ai loro genitori narcisisti.
Alan Rappoport usa il termine “narcisismo” per riferirsi ad uno stato psicologico che affonda le proprie radici in un’ autostima estremamente bassa. Le persone narcisiste hanno molta paura di non essere ben considerate dagli altri, e quindi cercano di controllare il comportamento e i punti di vista degli altri, per proteggere la loro autostima. Sono persone rigide nelle relazioni interpersonali, si offendono facilmente, sono assorbite da loro stesse e hanno serie difficoltà ad empatizzare con il prossimo. La dinamica soggiacente del narcisismo è un senso di sé (spesso inconsapevolmente) come pericolosamente inadeguato e fortemente vulnerabile al rifiuto. L’uso comune del termine si riferisce ad alcuni dei modi con cui i narcisisti difendono la propria autostima:
preoccupandosi costantemente della propria immagine fisica e sociale;
preoccupandosi di dare priorità ai propri pensieri e sentimenti;
preoccupandosi di esaltare la propria grandiosità;
immergendosi nei propri affari fino all’esclusione di tutto il resto (anche delle persone care);
insistendo sul fatto che le proprie opinioni e valori siano giusti;
sentendosi facilmente offesi e prendendo le cose “sul personale”.
Nella misura in cui i genitori sono narcisisti, controllano, incolpano, sono assorbiti da loro stessi, non tollerano le opinioni degli altri, ignorano i bisogni e gli effetti dei loro comportamenti sui figli, richiedono che i bambini li vedano come vogliono essere visti. Possono inoltre esigere un certo comportamento dai loro figli perché li vedono come estensioni di loro stessi, atti a soddisfare i loro bisogni emotivi. I genitori narcisisti sono molto intrusivi in alcuni aspetti della vita privata dei loro figli e molto disinteressati ad altri, in modo totalmente arbitrario. In ogni caso i figli vengono puniti se non si conformano alle richieste più o meno esplicite: la punizione può andare dall’atto fisico, agli abusi verbali (insultare, ridicolizzare, generare senso di colpa, criticare), ai ricatti emotivi (far percepire al figlio che a causa della delusione bruciante, l’affetto viene meno). Quale che sia il modo con cui viene espressa la punizione ha lo scopo di forzare il comportamento del figlio nella direzione voluta e di soddisfare i bisogni narcisistici dei genitori.
Le persone che si sono adattate alla vita con genitori narcisisti, da adulte, mostrano di non essere state in grado di sviluppare mezzi sani di auto-espressione e auto-indirizzamento. Alan Rappoport per definire questo tipo di adattamento ha coniato il termine “co-narcisismo”, una parola che, non a caso, crea un ‘analogia con i rapporti tra “alcolista e co-alcolista” e tra “dipendente e co-dipendente“. I co-alcolisti infatti collaborano in modo non consapevole con gli alcolisti, creando scuse per la dipendenza dell’altro, assecondandolo se necessario e non affrontando i problemi con assertività. Lo stesso vale per la persona co-dipendente. La moglie di un marito violento che si prende la colpa per il comportamento del suo partner è un esempio di assunzione di responsabilità per i problemi di qualcun altro. Sia il narcisismo che il co-narcisismo sono strategie di adattamentoche i figli hanno usato per far fronte alle realtà create dai loro genitori narcisisti. I figli dei narcisisti:
tendono a sentirsi eccessivamente responsabili per le altre persone;
tendono a presumere che i bisogni degli altri siano simili a quelli dei loro genitori, quindi si sentono in dovere di soddisfare tali bisogni, rispondendo nel modo richiesto;
tendono ad essere inconsapevoli dei propri sentimenti, bisogni ed esigenze e svaniscono in sottofondo nelle relazioni;
sono tipicamente insicuri perché non sono stati valutati per se stessi ma solo nella misura in cui hanno soddisfatto i bisogni dei loro genitori;
avendo sviluppato un concetto di sé sulla base del trattamento ricevuto dai genitori, spesso hanno idee molto imprecise su chi sono (ad esempio: possono temere di essere intrinsecamente insensibili, egoisti, difettosi, timorosi, non amorosi, eccessivamente esigenti, difficili da soddisfare, inibiti e / o privi di valore).
Le persone che si comportano co-narcisisticamente (tra queste i figli dei narcisisti) condividono una serie dei seguenti tratti:
avere bassa autostima;
lavorare duramente per compiacere gli altri;
rimandare alle opinioni altrui;
concentrarsi sulle visioni del mondo altrui e ignorare i propri orientamenti,
manifestare spesso depressione o ansia;
avere difficoltà nel riconoscere cosa pensano e sentono riguardo ad un argomento;
dubitare della validità delle proprie opinioni (specialmente quando queste sono in conflitto con le opinioni altrui);
assumersi la responsabilità degli eventuali problemi nelle relazioni con gli altri.
Spesso, la stessa persona mostra comportamenti sia narcisistici che co-narcisistici, a seconda delle circostanze. Una persona che è stata cresciuta da un genitore narcisista o co-narcisista tende a credere che, in ogni interazione interpersonale, una persona sia narcisista e l’altra co-narcisista, e spesso può interpretare una parte o l’altra. Comunemente, se nella coppia vi è un genitore narcisista e l’altro è co-narcisista, ecco che entrambi gli orientamenti sono modellanti per il bambino. Entrambe le condizioni sono radicate in una bassa autostima ed entrambe rappresentano modalità per difendersi dalle paure derivanti da critiche interiorizzate e di far fronte a persone che evocano queste critiche. Coloro che sono principalmente co-narcisisti possono comportarsi in modo narcisistico quando la loro autostima è minacciata o quando i loro partner assumono il ruolo di co-narcisista; le persone che si comportano principalmente in modo narcisistico possono agire co-narcisisticamente quando temono di essere ritenute responsabili e punite al posto di un altro.
Il narcisista ha bisogno di essere sotto i riflettori, e il co-narcisista serve da pubblico. Il narcisista è sul palco, si esibisce e richiede attenzione, apprezzamento, sostegno, lode, rassicurazione e incoraggiamento, e il ruolo del co-narcisista è quello di fornire queste cose. I co-narcisisti sono approvati e premiati quando si comportano bene nel loro ruolo, ma, diversamente, vengono corretti e puniti.
Uno degli aspetti critici della situazione interpersonale di co-dipendenza è che non si tratta di una vera relazione. La relazione può essere definita infatti come una interazione interpersonale in cui ognuno è in grado di considerare e agire in base ai propri bisogni, esperienze e punti di vista, e dove i partecipanti sanno considerare e rispondere all’esperienza dell’altra persona. Entrambe le persone sono importanti. In un incontro narcisistico, c’è, psicologicamente, solo una persona. Il co-narcisista scompare e solo l’esperienza della persona narcisistica è importante. I bambini cresciuti da genitori narcisistici arrivano a credere che tutte le altre persone siano narcisiste in una certa misura. Di conseguenza, nelle loro relazioni, si orientano intorno all’altra persona, perdono un chiaro senso di se stessi e non possono esprimersi facilmente né essere pienamente nelle loro vite. La loro tendenza a non esprimere i propri pensieri, sentimenti e bisogni e l’abitudine a sostenere e incoraggiare i bisogni degli altri, creano uno squilibrio nelle loro relazioni: i loro partner, comportandosi narcisisticamente possono prendere e pretendere sempre più spazio per sé stessi; i co-narcisisti, in buona sostanza, nella relazione temono di esistere.
Le persone co-narcisiste temono spesso di essere considerate egoistiche e insensibili se agiscono in modo più assertivo. Hanno imparato a pensare in questo modo perché sono stati etichettati come egoisti o insensibili quando non si sono adattati ai bisogni emotivi dei loro genitori. Dice Alan Rappoport che le preoccupazioni dei pazienti circa il loro egoismo sono un indicatore del narcisismo dei genitori, perché la motivazione dell’egoismo predomina nelle menti delle persone narcisiste. È una componente importante del loro stile difensivo, ed è quindi una motivazione che tendono ad attribuire prontamente agli altri.
Ci sono tre tipi comuni di risposte da parte dei bambini ai problemi interpersonali presentati loro dai loro genitori: identificazione, conformità e ribellione (vedi Gootnick, 1997).
L’identificazione è l’imitazione di uno o entrambi i genitori. L’identificazione può essere richiesta dai genitori per mantenere un senso di connessione con il bambino: il bambino, cioè, deve esibire le stesse qualità, valori, sentimenti e comportamenti che il genitore impiega per difendere la sua autostima. Ad esempio, un genitore che è un bullo può non solo intimidire suo figlio, ma può richiedere che anche il bambino diventi un bullo. Un genitore la cui autostima dipende dalla sua carriera accademica può richiedere che anche il bambino sia orientato verso il mondo accademico e valuti (o svaluti) il bambino in relazione alle sue realizzazioni in questo settore. L’identificazione è una risposta al genitore che vede il bambino come un rappresentante di se stesso, ed è il prezzo della connessione con il genitore. Il bambino diventa narcisista.
La conformità si riferisce all’adattamento co-narcisistico descritto in precedenza, in cui il bambino diventa il pubblico “approvante” cercato dal genitore. Il bambino è conforme ai bisogni del genitore essendo la controparte che il genitore cerca. Tutte e tre le forme di adattamento (identificazione, conformità e ribellione) possono essere considerate come conformità in un senso più ampio, poiché, in ogni caso, il bambino rispetta in qualche modo i bisogni del genitore ed è definito dal genitore. Ciò che definisce la conformità in questo senso è che il bambino diventa la controparte di cui il genitore ha bisogno per gestire le minacce alla sua autostima.
La ribellione si riferisce allo stato di combattimento per non accettare i dettami del genitore comportandosi in opposizione ad essi. Un esempio di questo comportamento è quello di un bambino intelligente che fa male a scuola in risposta al bisogno dei suoi genitori di ottenere prestigio. Il problema critico qui è che il bambino sta inconsciamente tentando di non sottostare alla definizione del genitore di lui, nonostante la sua costrizione interiore a soddisfare i bisogni dei genitori. Quindi agisce in modo autodistruttivo per cercare di mantenere un senso di indipendenza (se la pressione per la conformità non fosse stata interiorizzata, il bambino sarebbe libero di avere successo, nonostante la tendenza dei genitori a cooptare i suoi risultati.)
I narcisisti incolpano gli altri per i loro problemi; tendono a non cercare un aiuto psicologico perché temono di essere visti carenti e questo li costringe a granitici atteggiamenti difensivi. Non si sentono liberi o abbastanza al sicuri da esaminare il proprio comportamento, e tipicamente evitano la situazione terapeutica. I co-narcisisti, invece, sono pronti ad accettare la colpa e la responsabilità dei problemi, e sono molto più propensi a cercare aiuto, perché spesso sentono di aver bisogno di cambiare la loro situazione. Non è azzardato dire, afferma l’autore, che ogni narcisista ha avuto genitori narcisisti e che i genitori dei loro genitori lo erano ancora di più. Genitori narcisisti creano figli che, se questa dinamica intergenerazionale non viene spezzata, saranno portati a diventare a loro volta dei genitori narcisisti.
Come psicologa, oltre al servizio di consulenza online, ricevo in studio a San Polo di Torrile (Parma). Da oltre 10 anni ascolto ed aiuto le persone, concretamente, ad uscire dalle situazioni difficili, a fronteggiare le sfide esistenziali e a riprogettare il futuro.
In condizioni di stallo motivazionale e sofferenza psicologica posso aiutarti a superare le tue difficoltà, accompagnandoti verso una consapevolezza rinnovata di te, dei tuoi bisogni, delle tue priorità e del tuo modo di “funzionare”. Posso aiutarti a ritrovare la serenità e il benessere.
Come capire se una persona soffre del Disturbo Narcisistico di Personalità?
Per capire se una persona soffre di Disturbo Narcisistico di Personalità devono essere presenti almeno cinque tra i seguenti sintomi specifici,
sintomi della personalità narcisistica:
mancanza di empatia;
idee grandiose di sé (sentono di meritare un trattamento speciale, di avere particolari poteri, talenti, attrattività, di dover frequentare persone altrettanto speciali o di status elevato;
fantasie di successoillimitato (potere, fascino, bellezza o amore ideale);
tendenza a sentirsi svalutati (pensare di non essere sufficientemente apprezzati e riconosciuti nel valore);
senso di vuoto e apatia (nonostante eventuali successi);
richiesta eccessiva di ammirazione;
tendenza allo sfruttamento degli altri;
sentimenti di disprezzo, vergona o invidia;
atteggiamenti arroganti e presuntuosi.
Le parole chiave per questo disturbo sono “impulsività e instabilità”.
Caratteristiche psicologiche del Disturbo Narcisistico di Personalità
Le caratteristiche psicologiche degli individui con Disturbo Narcisistico di Personalità possono essere suddivise in termini di 1. visione di se stessi; 2. visione degli altri; 3. credenze intermedie e profonde; e 4. strategie di affrontamento delle difficoltà.
Visione di se stessi: io sono vulnerabile (all’abuso, al tradimento, alla trascuratezza); sono “difettoso”; “Sono cattivo”; “Non so chi sono”; “Sono debole e mi sento sovrastato”; “Non riesco ad aiutarmi”;
Visione degli altri: gli altri anche se sono calorosi e affettuosi restano inaffidabili perché : “Sono forti e potrebbero essere di sostegno, ma dopo un po’ cambiare per ferirmi o abbandonarmi”;
Credenze intermedie e profonde: credo che : “Devo sempre chiedere quello di cui ho bisogno”, “Devo rispondere quando mi sento attaccato”, “Lo devo fare perché devo sentirmi meglio”, “Se sono solo, non sarò in grado di affrontare la situazione”, “Se mi fido di qualcuno, questi prima o poi mi abbandonerà o abuserà e starò male”, “Se i miei sentimenti sono ignorati o trascurati, perderò il controllo”;
Strategie di affrontamento delle difficoltà: se una situazione mi sovrasta mi sottometto, alterno l’inibizione ad una protesta drammatica, punisco gli altri, elimino la tensione con azioni autolesive.
Quali sono le cause del Disturbo?
Il disturbo narcisistico di personalità potrebbe essere causato da molteplici condizioni. La maggior parte delle ricerche sostiene l’idea che a causare tale sintomatologia concorrano fattori ereditari e ambientali.
Fattori ambientali:
IPOTESI 1: genitori che credono nella superiorità del figlio, che premierebbero solo le qualità in grado di sostenere l’immagine grandiosa di sé e che garantiscono il successo.
IPOTESI 2: ambiente familiare incapace di fornire al bambino le necessarie attenzioni e cure, di riconoscere, nominare e regolare le sue emozioni, nonché di sostenere la sua autostima o i suoi desideri. Questo tipo di contesto disfunzionale tenderebbe a sviluppare nel bambino l’idea di poter vivere facendo a meno degli altri e di poter contare unicamente su se stesso.
IPOTESI 3: ambiente eccessivamente iperprotettivo che danneggia la fiducia del bambino in sé o anche un ambiente oltremodo permissivoe indulgente che comunica al bambino un senso di superiorità.
IPOTESI 4: bambino vittima di offese e umiliazioni, soprattutto da parte dei coetanei, potrebbe far fronte alle continue minacce alla propria autostima sviluppando un senso di sé grandioso.
Il disturbo e la quotidianità
Il disturbo narcisistico di personalità può compromettere ogni ambito della vita delle persone che ne soffrono: la professione, le relazioni e i rapporti di coppia. I narcisisti, infatti, quando non ricevono risposte alle loro continue richieste di ammirazione, di trattamenti di favore e alla soddisfazione immediata dei loro bisogni, possono divenire furiosi o mostrare disprezzo e distacco e, mancando di empatia, ricorrere alla manipolazione per raggiungere i propri scopi, fino alla messa in atto di comportamenti abusanti per riconquistare il potere che sentono di avere perduto. Se vengono criticati e se non ottengono il riconoscimento, che credono di meritare, possono reagire con rabbia o vergogna. Inoltre, poiché ritengono che lo status sociale ricopra un ruolo fondamentale nell’ esaltazione della propria immagine grandiosa, spesso si legano a persone famose o speciali che forniscono loro importanza di riflesso, sviluppando rapporti opportunistici e superficiali. Gli altri, d’altro canto, sentendosi sfruttati, manipolati e non rispettati nei loro bisogni potrebbero decidere di allontanarli. Questi distacchi, confermando uno dei peggiori timori dei narcisisti, portano a periodi di forte ansia e depressione; per lo più gli unici sintomi, che riescono a motivare, chi soffre di questo disturbo di personalità, a cercare l’ aiuto di un professionista.
Le stime di prevalenza del Disturbo Narcisistico di Personalità nella popolazione generale sono dell’1% e interessa principalmente i maschi e i paesi capitalistici occidentali.
Dott.ssa Silvia Darecchio – Psicologa – San Polo di Torrile (Pr) contatti