Chiuso per ferie – estate 2022

Siamo qui per dirvi che lo studio di Psicologia Torrile resterà chiuso dal 15 al 22 Agosto compresi. Ci ritroveremo perciò dal 23 per proseguire tutti i nostri percorsi e per cominciarne dei nuovi, con l’impegno e la professionalità di sempre.

Auguriamo a tutti delle felici giornate

PRIVACY POLICY MODULO DI CONTATTO

Privacy Policy Modulo di Contatto

In questa sezione si descrivono le modalità gestione dei dati personali che l’utente decide di fornire attraverso l’invio del modulo di contatto presente sul sito www.psicologia-benessere.org, sito di proprietà di Silvia Darecchio. Si tratta di informazioni rese agli utenti in relazione alle norme previste dal Regolamento UE 2016/679 ed in particolare degli artt. 12-23 dello stesso Regolamento.

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Il titolare del trattamento dei dati personali raccolti attraverso il sito www.psicologia-benessere.org è Silvia Darecchio, P.zza Martiri di Cefalonia 3/2, 43056 San Polo di Torrile (Pr).

Dati raccolti con il modulo di contatto

Compilando il modulo di contatto l’utente:

  • comunica il proprio nome;
  • comunica l’indirizzo email al quale vuole essere contattato;
  • scrive un messaggio da inviare a  silvia.darecchio.sd@gmail.com

Finalità del trattamento

Il nome, l’indirizzo email indicato dall’utente al momento della compilazione del modulo di contatto e le informazioni inserite dall’utente nel corpo del messaggio sono utilizzate esclusivamente per rispondere alla richiesta dell’utente stesso.

Destinatari dei dati personali

I dati personali raccolti da Silvia Darecchio tramite www.psicologia-benessere.org non potranno essere trattati da soggetti coinvolti nell’organizzazione del sito o da soggetti terzi. In ogni caso ogni utente potrà sempre richiedere al Titolare del trattamento l’elenco aggiornato dei Responsabili del trattamento con le modalità di cui alla sezione relativa ai diritti dell’utente (ossia mediante invio di comunicazione mail a silvia.darecchio.sd@gmail.com )

Ad eccezione delle ipotesi appena indicate i dati personali dell’utente non vengono comunicati a terzi salvo:

  • l’utente abbia rilasciato il proprio consenso espresso alla comunicazione;
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  • sia richiesto dalla legge.

Periodo di conservazione

Le informazioni date dall’utente con la compilazione del modulo di contatto (nome, indirizzo email, testo del messaggio) verranno trattati e conservati per il tempo strettamente necessario per la realizzazione della finalità per cui è stato raccolto, ossia per l’invio della risposta al quesito sottoposto.

Diritto di accesso

L’interessato ha il diritto di chiedere al Titolare del trattamento se sia in corso un trattamento di dati personali che lo riguardano e in caso affermativo di ottenere l’accesso agli stessi e le seguenti informazioni:

  1. Le finalità del trattamento;
  2. le categorie di dati in questione;
  3. i destinatari o le categorie di destinatari a cui i dati personali sono stati o saranno comunicati, in particolare se destinatari di paesi terzi o organizzazioni internazionali;
  4. quando possibile, il periodo di conservazione dei dati personali previsto oppure, se non è possibile, i criteri utilizzati per determinare tale periodo;
  5. l’esistenza del diritto dell’interessato di chiedere al titolare del trattamento la rettifica o la cancellazione dei dati personali o la limitazione del trattamento dei dati personali che lo riguardano o di opporsi al loro trattamento;
  6. il diritto di proporre reclamo a un’autorità di controllo;
  7. qualora i dati non siano raccolti presso l’interessato, tutte le informazioni disponibili sulla loro origine;
  8. l’esistenza di un processo decisionale automatizzato, compresa la profilazione di cui all’articolo 22, paragrafi 1 e 4, e, almeno in tali casi, informazioni significative sulla logica utilizzata, nonché l’importanza e le conseguenze previste di tale trattamento per l’interessato.

Qualora i dati personali siano trasferiti a un paese terzo o a un’organizzazione internazionale, l’interessato ha il diritto di essere informato dell’esistenza di garanzie adeguate ai sensi dell’articolo 46 relative al trasferimento.

Silvia Darecchio specifica che:

  • L’interessato ha in ogni momento la possibilità di chiedere la rettifica o la cancellazione dei propri dati personali secondo le modalità indicate nella relativa sezione (ossia mediante invio di comunicazione mail a silvia.darecchio.sd@gmail.com ).
  • I dati personali non vengono raccolti con procedimenti completamente automatizzati, ma è sempre necessario il consenso dell’utente che inserisce i propri dati nei form predisposti sul sito.

Diritto alla cancellazione e diritto di rettifica

L’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento:

  • la rettifica dei dati, qualora non siano corretti
  • la cancellazione dei propri dati personali.

Per l’esercizio di questo diritto è possibile inviare una richiesta scritta a silvia.darecchio.sd@gmail.com

Il titolare del trattamento provvederà, senza ritardo, nel pieno rispetto dell’art. 17 del Regolamento europeo alla cancellazione richiesta.

Diritto di limitazione del trattamento

L’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la limitazione del trattamento stesso nelle seguenti ipotesi:

  • l’interessato contesta l’esattezza dei propri dati: per il tempo necessario al titolare del trattamento per verificarne l’esattezza;
  • trattamento illecito: l’interessato si oppone alla cancellazione e chiede che ne venga limitato l’utilizzo;
  • l’interessato si oppone al trattamento a norma dell’art. 21 paragrafo 1 in attesa della verifica in merito all’eventuale prevalenza dei motivi legittimi del titolare del trattamento rispetto a quelli dell’interessato.

Silvia Darecchio precisa che:

Il trattamento dei dati personali avviene esclusivamente previo rilascio del consenso dell’utente, unicamente per le finalità esplicitate di volta in volta al momento della raccolta dei dati personali. Qualora l’interessato ritenesse di esercitare il diritto di limitazione del trattamento potrà inviare una richiesta scritta a silvia.darecchio.sd@gmail.com

Diritto di proporre reclamo

L’interessato ha il diritto di proporre reclamo presso l’Autorità di controllo.

Perchè ho sempre la pancia gonfia?

Pancia gonfia: potrebbe essere lo stress?

La medicina cinese dice di si. L’antica tradizione medica orientale considerava il gonfiore addominale alla stregua di un eccesso di ansia che non veniva espressa efficacemente e che, in modo involontario, era trattenuta all’interno del corpo. Oggi, grazie agli enormi passi fatti in ambito psico-neuro-immuno-endocrinologico, sappiamo che è davvero così. Pensiamo banalmente anche solo a come respiriamo, quando siamo stressati, ansiosi e agitati. Per la maggior parte del tempo respiriamo in modo affannato… anche quando mangiamo! Questo comporta l’ingestione di molta aria che, non potendo essere espulsa (perché “mangiata” e non semplicemente respirata), resta intrappolata nello stomaco e poi nell’intestino, causando appunto la cosiddetta “pancia gonfia”.

Attenzione quindi alla pancia gonfia! Potrebbe dirci tanto di come siamo e di come stiamo. Ma non solo…

Un cervello nella pancia

Pancia e stress hanno un legame molto complesso. Infatti non tutti sanno che abbiamo nell’ addome un “secondo cervello” responsabile della digestione, ovviamente, ma anche della produzione di dopamina e serotonina, neurotrasmettitori capaci di influenzare i nostri stati d’animo. Quindi le tensioni, i conflitti, le arrabbiature, lo stress emotivo si “accumulano anche nella pancia”, nel senso che gli stress vissuti determinano il rilascio, in quella zona, dei neurotrasmettitori che, a loro volta, influenzano il nostro umore. 

C’è di più: incredibilmente il cervello “della pancia” pare essere dotato anche di una memoria. I due cervelli quindi, quello addominale e quello intracranico, creerebbero tra loro una via privilegiata di comunicazione, un asse di scambio di informazioni estremamente sensibile, capace di tenere in memoria gli eventi stressanti del nostro passato, anche molto lontano nel tempo. Questo spiegherebbe ad esempio il legame tra le coliche della prima infanzia e lo sviluppo in età adulta della sindrome del colon irritabile.

PER APPROFONDIRE
Intestino cervello “dialogano” fittamente tra loro, questo perchè anche nell’intestino è presente una piccola quantità di cellule neuronali che, influenzate da fattori interni ed esterni (ad esempio le emozioni), rilasciano ben il 95% della serotonina totale. La serotonina, detta anche “ormone della felicità”, è appunto il neurotrasmettitore che regola gli stati d’animo e quindi l’umore; essa porta con sè delle informazioni destinate direttamente al sistema limbico del cervello, che deve rielaborarle.
Se la persona sperimenta emozioni negative, associate a stati di ansia, di paura o di tensione, il cervello “ordina” all’intestino di rilasciare altra serotonina, tuttavia questo intervento ha delle ripercussioni sulla funzionalità dell’apparato digestivo: la muscolatura addominale si contrae provocando tensione, gonfiore, crampi, diarrea o stitichezza, spasmi e crampi. Avere la muscolatura addominale contratta nella zona diaframmatica significa, invece, avere una digestione rallentata e problematica (la dispepsia). Non solo: le emozioni negative e lo stress, oltre ad avere ripercussioni sull’intestino, agiscono anche sullo stomaco, inducendo una ipersecrezione di acido cloridrico che, se cronica, può portare ad infiammazione delle mucose, terreno fertile per fastidiosi bruciori, gastrite e addirittura ulcere.

Se vuoi ulteriormente approfondire ti consiglio di leggere questo articolo: “Psicosomatica: l’intestino”

Non solo pancia gonfia

Il fastidioso senso di pancia gonfia, le difficoltà digestive, gli episodi frequenti di diarrea potrebbero quindi avere un’origine psicosomatica. Tra i sintomi, sempre più frequenti, che le persone portano ai loro medici di base vi sono:

  • pancia gonfia;
  • stomaco gonfio;
  • stitichezza;
  • diarrea;
  • nausea;
  • dolori addominali;
  • crampi;
  • meteorismo;
  • flatulenza;
  • digestione rallentata.

Al perdurare di questi sintomi il medico di base risponde con doverose e preziose indagini diagnostiche finalizzate alla scoperta delle cause organiche che potrebbero portare ad avvertire questi disturbi, tra esse:

  • intolleranze alimentari;
  • allergie;
  • infiammazioni;
  • calcoli biliari;
  • ulcere;
  • diverticoli;
  • polipi intestinali. 

Tuttavia abbiamo visto come un addome costantemente gonfio e affaticato non sempre dipenda da una patologia di tipo organico. Abbiamo spiegato infatti quanto sia stretta la correlazione tra le emozioni negative, lo stress e i disturbi gastrointestinali. Proprio per questo quindi, una volta che gli esami diagnostici hanno escluso un’origine patologica dei sintomi, è importante e utile cercare di lavorare sul nostro stato psicologico e sulle modalità che usiamo per affrontare la quotidianità, i problemi e le relazioni. Vale la pena fare un bilancio sulla quantità di stress che il vivere la nostra vita comporta e provare a trovare soluzioni valide per fronteggiarlo al meglio, riuscendo ad evitare così pericolose e insidiose somatizzazioni.

Hai anche tu problemi gastrointestinali?
Hai un stile di vita stressante?
Ti fai carico di tutto e di tutti?
Tendi a “sentire tutto nella pancia”?
NON SOTTOVALUTARE UNA SOLUZIONE PSICOLOGICA!

Come psicologa posso aiutarti a superare le tue difficoltà, accompagnandoti verso una consapevolezza rinnovata di te, dei tuoi bisogni, delle tue priorità, del tuo modo di “funzionare” e di affrontare i problemi. Posso aiutarti a ritrovare la serenità e il benessere psico-fisico anche grazie alla proposta di tecniche di gestione dello stress. Da più di 10 anni, attraverso i servizi di consulenza on-line  e di counseling in studio, ascolto ed aiuto le persone concretamente ad uscire dalle situazioni difficili, a fronteggiare le sfide esistenziali, a superare gli ostacoli e a riprogettare il futuro. Dott.ssa Silvia Darecchio – contatti


Adolescenza: quando la scuola mette ansia

Quella dell’ansia da prestazione scolastica è una difficoltà che si trovano a vivere tanti studenti pre-adolescenti ed adolescenti nella loro quotidianità, anche ai tempi del COVID-19. L’ansia da prestazione scolastica, che in interessa sempre più anche i bambini più piccoli (seppur con manifestazioni diffrenti), è caratterizzata fondamentalmente da:

  • la paura dell’insuccesso;
  • la paura del giudizio negativo degli altri;
  • la paura dell’eventualità di non essere capaci di superare la prova che si deve affrontare.

Nasce, quindi, dal normale desiderio di essere amati e ammirati e dalla paura di essere rifiutati o ridicolizzati: la paura di una prestazione imperfetta non solo sembra allontanare l’obiettivo che si voleva raggiungere ma potrebbe esporre alla critica e alla svalutazione.

Tuttavia è anche vero che i ragazzi, travolti dall’ansia scolastica, tendono spesso a compiere errori di valutazione su di sè, sui coetanei e sugli insegnanti. Vediamo alcuni degli errori più comuni che, se non individuati, non fanno altro che alimentare il circolo vizioso dell’ ansia da prestazione.

Non creiamoci profezie che si auto-avverano. Se ci danno delle etichette o, peggio, se siamo noi stessi a darcele, è molto probabile che alla lunga ci identificheremo con quella etichetta, finendo con essere quello che pensiamo di essere. Focalizziamo la nostra attenzione e valutiamo, invece, il nostro comportamento, non le nostre “qualità”. Il comportamento infatti può essere sempre modificato, a differenza di presunte qualità negative che, spesso erroneamente, ci attribuiamo. Aumenteremo così il senso di controllo sulla nostra vita, proveremo emozioni meno spiacevoli e individueremo, con maggior facilità, i passi necessari da effettuare per cambiare e, quindi, per migliorarci .

Questo modo di affrontare una prova andata male è molto più funzionale perchè ci consente di tenere al riparo, dai colpi bassi della vita, la nostra autostima. In questo caso, infatti, il ragazzo dimostra di avere ben chiara la differenza tra il proprio valore come persona e il proprio comportamento circostanziato (questa volta è andata così, la prossima andrà meglio) come studente. Altre volte, a tutti noi capita di andare in crisi a causa delle nostre teorie attribuzionali.

Anche in questo caso pensiamo che i fallimenti siano causati da mancanza di doti personali, cioè dimostriamo di possedere una teoria attribuzionale dell’insuccesso interna e stabile. Così facendo, facciamo dipendere l’insuccesso da “cose che abbiamo dentro di noi” (attribuzione interna) che non possiamo cambiare essendo nati così (attribuzione stabile). Ciò determina a cascata, poichè secondo questa teoria tutto è già deciso, una diminuzione della motivazione ad impegnarsi nello studio di quella data disciplina, perché tanto non servirà a niente… Fortunatamente, tuttavia, non esiste alcun gene della matematica, quindi tutti, applicandosi e impegnandosi, possono raggiungere brillanti risultati.

Esatto!

ATTENZIONE GENITORI!!! Anche i genitori devono fare la loro parte: è importante accompagnare con una motivazione positiva l’impegno che viene richiesto a scuola: è necessario studiare, imparare, impegnarsi in ogni attività che si compie, ma non per diventare i primi, bensì per apprendere cose che non si conoscono o non si sanno fare, divenire più competenti, effettuare un bel percorso di crescita personale. Anche per i ragazzi è utile l’uso dell’ apprezzamento degli adulti rivolto alle loro fatiche quotidiane.

Se la paura che paralizza è quella del giudizio degli altri, il nostro dialogo interno potrebbe essere questo:

Ci capita di pensare a ciò che di brutto potrebbe accadere, per essere preparati ad affrontarlo. La strategia di preoccuparsi per qualcosa che non si sa se accadrà è, però, sostenuta da una scorretta valutazione della probabilità che quell’evento accada realmente. Si confonde cioè la possibilità che ciò possa accadere con l’alta probabilità che accada realmente. E’ probabile che qualcuno possa considerare irrilevante la nostra domanda, ma per altri potrebbe essere utile. Alleniamoci a sopportare il fatto di non poter evitare che gli altri pensino quello che vogliono. Il problema di essere criticati è un “non problema” in quanto non ha soluzione! Se ci pensiamo bene, inoltre, il fallimento come tale non esiste: il vero insuccesso è l’ aver perso l’occasione di rischiare; qualunque sia il risultato ottenuto, meglio aver giocato e aver perso la partita, che non aver giocato affatto.

Può davvero essere difficile affrontare le situazioni che ci mettono ansia, anziché evitarle come abbiamo imparato a fare! Tuttavia fronteggiarle è l’unico modo per superarle. Evitare la situazione ansiogena placa sicuramente l’ansia, lì per lì, ma non farà altro che rendere più stabile il comportamento dell’evitamento, accrescerà la nostra insicurezza, non ci farà evolvere come persone, non ci permetterà di capire quante e quali risorse abbiamo dentro di noi. Affrontando le situazioni ansiogene alleneremo la nostra attenzione a focalizzarsi sugli aspetti positivi delle situazioni e non su quelli negativi (ad esempio: facendo la domanda abbiamo ottenuto dall’ insegnante la risposta che ha chiarito i nostri dubbi).

Come parliamo a noi stessi? Il dialogo che abbiamo con noi fa sempre la differenza, anche in questi casi:

Anche questa affermazione contiene alcune trappole boomerang, ovvero trappole del giudizio che tornando indietro ci danneggiano! In particolare, utilizzare il verbo “dovere” significa mettere in atto una pretesa nei confronti di noi stessi. Questa pretesa, inutile dirlo, ci farà stare in ansia, in quanto porta con sè un giudizio estremamente negativo su di noi qualora andasse male la prova di storia. Inoltre l’avverbio “assolutamente” non ci permette di considerare altre possibilità, se non quelle più catastrofiche.

Ecco un ottimo esempio di problem solving!

Ovviamente esistono tanti altri accorgimenti e tante tecniche per tenere a bada l’ansia da prestazione scolastica e, più in generale, per acquisire una maggior sicurezza in noi stessi come studenti e come persone, bisogna solo scegliere quelli che più fanno al caso nostro… Ricordiamoci infatti che: un ragazzo sereno è un alunno migliore!

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Pensi di soffrire di ansia da prestazione scolastica? Andare a scuola è una tortura? Tua/o figlia/o non vive bene l’esperienza della scuola? Sei preoccupata/o per questo e vorresti fare qualcosa per aiutarla/o?

Come psicologa, oltre al servizio di CONSULENZA ON-LINE e VIDEO-CONSULENZA ON-LINE ricevo in studio a San Polo di Torrile (Parma) per COLLOQUI IN PRESENZA. Da oltre 10 anni ascolto ed aiuto le persone, concretamente, ad uscire dalle situazioni difficili, a fronteggiare le sfide esistenziali e a riprogettare il futuro.


Dott.ssa Silvia Darecchio – contatti

Coronavirus emergenza psicologica: L’ANSIA

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COSA E’ UN’EMERGENZA

In Italia, dopo settimane di relativa calma dall’annuncio dell’esistenza nel mondo di una nuova forma virale, si è scoperto,  grazie (purtroppo) alle gravi condizioni di salute del povero “paziente 1”, che il  virus stava già da tempo diffondendosi pressoché indisturbato tra la popolazione del nord del Paese. In pochi giorni la situazione ha rivelato i suoi veri contorni, fino a rappresentare, per le Regioni colpite, una vera e propria emergenza sanitaria, sociale, psicologica ed economica.

Ma cos’è un’emergenza? Con il termine emergenza, ci si riferisce solitamente a tutte quelle situazioni impreviste ed improvvise che possono minacciare l’integrità fisica e psichica dell’individuo.

Sappiamo tutti quanto, molto spesso, emergenza significhi ANSIA.


ANSIA

L’esperienza dell’epidemia di un virus sconosciuto, di cui sappiamo poco e comunque non abbastanza, rappresenta un ottimo esempio di minaccia oggettiva alla quale è normale reagire con paura e, nei limiti, con ansia. L’ ansia è, infatti, l’emozione tipicamente umana  provata di fronte ad una minaccia percepita. A ben vedere l’ansia e la paura sono sostanzialmente la stessa cosa ma, mentre la paura può essere intesa come la valutazione automatica di una minaccia o di un pericolo reali, l’ansia è un sistema di risposta più complesso, che coinvolge fattori cognitivi, emotivi, comportamentali e fisiologici.
Per chiarire, la paura è quella che sperimentiamo quando uno stimolo oggettivamente pericoloso mette a repentaglio la nostra incolumità: si reagisce con paura, ad esempio, quando un cane ringhiante compare improvvisamente sul nostro cammino. L’ansia, invece, è quella che potremmo provare in una dimensione di controllo e previsione: quando immaginiamo di vivere situazioni, per noi paurose, che non abbiamo ancora vissuto o quando ricordiamo – riattualizzandole – situazioni del passato in cui abbiamo avuto paura. La paura è nel “qui e ora”, l’ansia è nel “prima o dopo”.
Sia l’ansia che la paura sono state esperienze fondamentali per la sopravvivenza della specie umana, poiché hanno preparato e preparano l’organismo a rispondere alle minacce e al pericolo. Sono risposte normali e innate di attivazione, caratterizzate da un aumento della vigilanza e dell’attenzione con l’obiettivo di prepararci ad affrontare la minaccia predisponendoci a una risposta di attacco o fuga.

Tuttavia facciamo attenzione ai pensieri, alle emozioni, ai comportamenti di ansia perché l’ansia ad alti livelli, pur con l’intenzione di preservare la nostra integrità, non sempre è una buona consigliera, anzi, con facilità può portare a risultati paradossalmente disfunzionali (nel nostro caso: affollamenti nei supermercati, fughe in massa dalle “zone rosse”, ecc…).

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Per comprendere meglio il complesso fenomeno dell’ansia è necessario operare un’ulteriore distinzione tra ansia fisiologica (preoccupazione ed elevato stato di attivazione rivolti al passato e al futuro per una situazione percepita come minacciosa) ed ansia patologica (preoccupazione ed elevato stato di attivazione che perdura per la maggior parte della giornata, delle settimane e dei mesi indipendentemente dalla situazione vissuta). Mentre l’ansia fisiologica può prepararci ad affrontare una prova per noi difficile, l’ansia patologica è per lo più disfunzionale perché, essendo persistente e intensa, interferisce con il nostro modo di fronteggiare le difficoltà, portando a considerare come pericolosi eventi che in realtà non lo sono.

Cosa succede se prendiamo decisioni quando proviamo livelli d’ansia troppo elevati? Perché, quando decidiamo qualcosa con elevati livelli di ansia, abbiamo la tendenza a scegliere l’opzione peggiore?


SINTOMI COGNITIVI DELL’ANSIA

Dal punto di vista cognitivo i sintomi tipici dell’ansia sono:

  • il senso di vuoto mentale;
  • un senso crescente di allarme e di pericolo;
  • l’induzione di immagini, ricordi e pensieri negativi;
  • la messa in atto di  comportamenti protettivi cognitivi;
  • la sensazione marcata di essere al centro dell’attenzione altrui.

UNO STUDIO INTERESSANTE: L’ANSIA ECCESSIVA NON E’ UNA BUONA CONSIGLIERA

Uno studio pubblicato sulla rivista Nature Neuroscience, realizzato da un équipe di ricercatori dell’Università di California a Berkeley e dall’Università di Oxford, suggerisce che gli elevati livelli di ansia e di stress (la risposta di attivazione del sistema nervoso autonomo prolungata nel tempo) presentano una serie di effetti indesiderati che possono interferire nella realizzazione di molti compiti, rendendo anche le faccende quotidiane una vera impresa. Tra queste, il compito di prendere decisioni in un contesto di incertezza.

Lo studio succitato ha provato che le persone che sperimentano alti livelli di stress e ansia tendono:

  • a concentrarsi sugli aspetti negativi,
  • a pensare in modo catastrofico,
  • a rendere piccoli problemi enormi minacce,
  • ad avere una maggiore difficoltà a leggere e ad interpretare i segnali ambientali.
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I ricercatori hanno lavorato con 31 partecipanti che presentavano diversi livelli d’ansia e attraverso misure fisiologiche, misure di comportamento e modelli computazionali, ne hanno valutato l’ abilità nel prendere decisioni probabilistiche. Tra i metri di giudizio dei ricercatori, c’è stato anche un segmento oculare per calcolare la dilatazione della pupilla (un indicatore del fatto che il cervello secerne norepinefrina, la quale aiuta a inviare segnali a diverse regioni del cervello per aumentare la veglia e la disposizione ad agire).

Le persone fortemente ansiose hanno avuto maggiori problemi ad adattarsi rispetto a quelle meno ansiose. Tra i partecipanti più ansiosi è stata inoltre più debole la risposta pupillare, suggerendo un fallimento nel processare l’informazione che cambia a grande velocità (le pupille si dovrebbero invece dilatare quando, in ambienti mutevoli,  acquisiamo nuove informazioni).

I ricercatori suggeriscono che questo indica una relazione tra l’ansia e una scarsa abilità nel prendere decisioni in situazioni mutevoli oltre a presentare maggiori difficoltà nel leggere i segnali ambientali (di volatilità  o di stabilità), che possono aiutare ad evitare un risultato negativo. I risultati dello studio parlano per i soggetti più ansiosi, di un errore nei circuiti di ordine superiore del cervello deputati a prendere decisioni.


QUARANTENA: NON SOLO ANSIA

Alcuni ricercatori del King’s College, analizzando la letteratura a disposizione, hanno rilevato che le popolazioni sottoposte a quarantena tendevano a riportare, in generale, diversi sintomi psicologici, tra questi:


IMPATTO PSICOLOGICO SULLE DIVERSE FASCE DI POPOLAZIONE

I ricercatori hanno anche cercato di capire, sempre studiando la letteratura disponibile sul tema, se ci fossero delle caratteristiche individuali o demografiche che favorissero l’insorgere di questi sintomi. Emergeva chiaramente che i soggetti più colpiti erano i medici e gli staff ospedalieri (un rischio già evidente è che potremmo assistere a molti casi di burnout tra il personale che è in prima linea nel contrastare l’emergenza covid-19), così come i soggetti in giovane età.

Altre fasce della popolazioni più a rischio, come evidenziano i Centers for disease control and prevention statunitensi (Cdc), sono:

  • gli anziani,
  • i cittadini con malattie croniche,
  • le persone che già soffrono di disturbi mentali (anche lievi).

Si hanno ancora pochi dati sull’impatto psicologico che la quarantena può avere sui bambini, che in queste settimane sono costretti a restare in casa, lontani dalla scuola.

Che cosa peggiora la quarantena

Esistono, nella letteratura scientifica, delle evidenze che portano a considerare certi stimoli esterni come fonti di ulteriore stress e di peggioramento della condizione psicologica legata alla quarantena, i cossiddetti “stressor”. Tra questi, gli stressor più diffusi sono:

  • la durata della quarantena,
  • la paura di essersi contagiati,
  • la paura di poter contagiare i famigliari,
  • la noia,
  • la frustrazione,
  • l’essere privi di beni necessari (alimentari, per la salute, legati all’informazione),
  • la mancanza di chiarezza (in particolare sui diversi livelli di rischio).

Esistono poi fattori di rischio che possono aumentare la probabilità di avere difficoltà psicologiche, una volta finita la quarantena. In particolare, i ricercatori si sono concentrati sul quantificare gli effetti causati dalle perdite economiche e dallo stigma sociale che vivevano i soggetti isolati una volta liberi. E’ emerso che chi ha livelli di reddito più bassi mostra una necessità di supporto maggiore, sia economico che psicologico, durante e dopo i periodi di quarantena.


Se questa emergenza sanitaria e psicologica, rappresentata dall’ epidemia di COVID-19, ha risvegliato in te uno stato d’ansia antico o nuovo; se ti rendi conto che ti mancano, o stanno venendo meno, gli strumenti psicologici per fronteggiare la quotidianità; se non riesci a riposare perchè il tuo stato di attivazione interno non ti consente il rilassamento; se piangi spesso; se ti senti tormentato da pensieri scuri che non ti lasciano mai; se pensi di soffrire di un Disturbo Acuto da Stress puoi chiamare il 3206259427


Da oltre 10 anni ascolto ed aiuto le persone, concretamente, ad uscire dalle situazioni difficili, a fronteggiare le sfide esistenziali e a riprogettare il futuro. In condizioni di incertezza posso aiutarti a superare le tue difficoltà, accompagnandoti verso una consapevolezza rinnovata delle relazioni che vivi, dei bisogni tuoi e degli altri, e del modo che hai di gestire i rapporti interpersonali. Posso aiutarti a ritrovare la serenità e il benessere tuoi, e della tua famiglia. Oltre al servizio di CONSULENZA ON-LINE E VIDEO-CONSULENZA ON-LINE ricevo nel mio studio in provincia di Parma per COLLOQUI IN PRESENZA

Dott.ssa Silvia Darecchio – contatti

Selfie-dipendenza e salute mentale

Morire per il “selfie perfetto”

Nel marzo 2014, il Daily Mirror ha pubblicato la storia di Danny Bowman, un adolescente “drogato di selfie”. Danny passava 10 ore della propria giornata a “farsi selfie”, attività per la quale aveva abbandonato la scuola, rinunciato alle amicizie e tentato addirittura il suicidio. Intervistato Bowman aveva detto:

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Danny Bowman

“Ero costantemente alla ricerca del selfie perfetto e quando mi sono reso conto che non potevo ottenerlo, ho preferito morire. Ho perso i miei amici, la mia educazione, la mia salute e quasi la mia vita. L’unica cosa che mi importava era avere il telefono con me in modo da poter soddisfare l’impulso di scattare una foto di me stesso in qualsiasi momento della giornata. Alla fine ho capito che non avrei mai fatto una foto che avrebbe fatto sparire la mia brama ed è stato lì che ho toccato il fondo. Le persone non si rendono conto che l’abitudine di pubblicare selfie su Facebook o Twitter può sfuggire rapidamente al loro controllo. Diventa una missione per ottenere l’approvazione e può distruggere chiunque. È un vero problema come droga, alcol o gioco d’azzardo. Non voglio che qualcuno passi attraverso quello che ho passato io. Le persone hanno commentato i miei selfie, ma i ragazzi possono essere crudeli. Uno mi ha detto che il mio naso era troppo grande per il mio viso e un altro ha disapprovato la mia pelle. Ho iniziato a farmi sempre più selfie per cercare di ottenere l’approvazione dei miei amici. Mi sono sentito molto su quando qualcuno ha scritto qualcosa di carino ma sventrato quando altri hanno scritto qualcosa di poco gentile. Scattare molti selfie sembra banale e innocuo, ma questa è la cosa che lo rende così pericoloso. Mi è quasi costato la vita, però sono sopravvissuto e sono determinato a non tornare mai più in quella situazione.”

Il caso di Danny Bowman è sicuramente estremo. Tuttavia è vero che essere ossessionati dai selfie può rappresentare un comportamento sintomatico di problematiche psicologico-psichiatriche più importanti. Come nel caso di Danny, che ha ricevuto la diagnosi di Disturbo da Dismorfismo Corporeo (BDD), ovvero una preoccupazione angosciante, “handicappante”, compromettente la qualità della vita, derivata da un “lieve difetto” (percepito o immaginato) nel proprio aspetto, che il malato invece valuta come deturpante, repellente e deformante. Lo psichiatra di Bowman, il dott. David Veale, ha dichiarato: “Il caso di Danny è particolarmente estremo. Ma questo è un problema serio. Non è un problema di vanità. È un problema di salute mentale, che ha un tasso di suicidi elevato “.


Quando i selfie diventano un’ossessione

In un editoriale del 2017 intitolato “Selfie Addiction”, Singh e Lippmann hanno affermato che conoscere la “psicologia dei selfie” e le sue conseguenze è importante sia per gli individui che per le comunità in cui vivono. Sostengono che “farsi i selfie” a volte può essere “sconsiderato rispetto ad altre persone”, specialmente quando “ottenere lo scatto perfetto diventa un’ossessione”. Affermano che un numero eccessivo di selfie può diventare “un’ossessione fastidiosa e può essere correlata a diversi tratti della personalità” quali:

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In una breve rassegna della letteratura sul comportamento di “farsi i selfie” e la salute mentale, Kaur e Vig nel 2016 hanno concluso che la dipendenza da selfie era associata a:

Sempre nel 2016, anche Sunitha e colleghi hanno riportato risultati simili sulla base dell’analisi del materiale disponibile sull’argomento. In un articolo online del 2017 sull’ascesa della “generazione selfie”  Tolete e Salarda hanno intervistato il dott. Robyn Silverman, grande studioso delle dinamiche di sviluppo degli adolescenti, su come e perché gli adolescenti siano così condizionati dal “farsi i selfie”.  Silverman ha detto che gli adolescenti: “Bramano un feedback che li aiuti a vedere come la loro identità si adatta al loro mondo e viene percepita dal mondo. I social media offrono l’opportunità di raccogliere informazioni immediate … la “generazione selfie” finisce per angosciarsi per i pochissimi like ricevuti o per uno o due commenti negativi, come se questi fossero gli unici indici di “riuscita personale” che contano. Si può solo immaginare la vulnerabilità della loro ancora fragile autostima in un simile ambiente “.

Altri accademici hanno affermato che, mentre mancano le prove della “dipendenza da selfie” come problema sociale, ciò non significa che non potrebbe essere una “patologia primaria” nei tempi a venire. L’argomento infatti deve essere ancora approfondito, attraverso studi empirici che, come accade ancora troppo spesso, non soffrano di debolezze metodologiche.


Selfie e narcisismo

Dal punto di vista psicologico, “farsi un selfie” è un’azione auto-orientata che permette alle persone di rimarcare la propria individualità e di sottolineare l’importanza che danno a loro stesse (al loro aspetto esteriore)  tuttavia, e proprio per questo, è anche un comportamento associato a “tratti narcisistici di personalità”. Uno studio dell’Università Swansea in collaborazione con l’Università di Milano ha stabilito infatti che un eccessivo uso dei social media, attraverso la pubblicazione di selfie, è associato ad un aumento di tratti narcisistici (Bircek, Osborne, Reed, Viganò, & Truzoli, 2018).

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I ricercatori hanno valutato le modificazioni della personalità di un campione di 74 individui dai 18 ai 34 anni, durante un periodo di quattro mesi. È stata considerata, inoltre, l’assiduità con cui i partecipanti, durante il periodo dedicato alla ricerca, hanno utilizzato i social media. I risultati hanno mostrato che i partecipanti che solitamente pubblicavano un numero molto elevato di selfie, hanno mostrato un aumento del 25% dei tratti narcisistici. Questo studio per la prima volta ha evidenziato che esiste una correlazione tra la frequenza di utilizzo dei social media e il narcisismo, in relazione alla pubblicazione di selfie. I dati suggeriscono che i narcisisti utilizzano per più tempo i social media e soprattutto che, la pubblicazione di selfie, tende ad aumentare i tratti narcisistici.  Secondo questi ricercatori, se si considerasse il campione usato come rappresentativo della popolazione generale, almeno il 20% delle persone potrebbe sviluppare tratti narcisistici, in base proprio all’eccessiva pubblicazione di selfie. I problemi di personalità (i tratti narcisistici di personalità) aumenterebbero a causa del fatto che, postando immagini di sé, l’individuo si sentirebbe ancora di più al centro dell’attenzione. Inoltre, la mancanza di una censura sociale immediata e diretta potrebbe accentuare aspetti della loro personalità narcisista, come il percepirsi sotto una luce grandiosa e l’intensificarsi delle proprie fantasie di onnipotenza (Reed, Bircek, Osborne, Viganò, & Truzoli, 2018).


Selfie selfie delle mie brame

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Il rischio, per chi fa dei selfie un’ossessione, è di cadere nella trappola del “mi piace“, di vivere cioè una vita in funzione della validazione e dell’approvazione degli altri. Perché è proprio questo quello che accade. Colui che in modo compulsivo condivide continuamente le proprie immagini è, più o meno consapevolmente, alla ricerca di un “mi piace“, ovvero di una forma di approvazione istantanea che agisca sull’autostima, solitamente piuttosto bassa. Ma l’effetto che un “mi piace” ha sull’autostima è effimero ed impermanente. Anche se le intenzioni sono buone, l’abitudine di farsi e pubblicare selfie come “modo di vivere e condividere la vita” modifica il modo di porsi nei confronti del mondo e degli altri e influenza i comportamenti, che vengono agiti e mostrati solo se socialmente attraenti.  Lo scopo del vivere rischia di diventare, quindi, non più l’ essere realmente nel qui e ora e l’ assaporare il momento, ma il mero mostrarlo agli altri. Va da sé che “la soluzione” al problema non possa essere rappresentata dall’evitare l’uso della tecnologia, dei social network, della condivisione, quanto piuttosto dal divenire consapevoli degli effetti deleteri che un loro utilizzo eccessivo e smodato può avere, e dall’imparare a farne un buon uso. Si tratta di trovare un equilibrio tra quello che può essere mostrato e quello che deve essere difeso e custodito, di mettere un confine tra ciò che si ha di intimo e ciò che è pubblico; così facendo, la propria dimensione personale (e identitaria) non sarà invasa dal giudizio dell’altro.

Più facile a dirsi che a farsi? La tua felicità e la tua autostima dipendono dal giudizio degli altri? 


Come psicologa, oltre al servizio di consulenza online, ricevo in studio a San Polo di Torrile (Parma). Da oltre 10 anni ascolto ed aiuto le persone, concretamente, ad uscire dalle situazioni difficili, a fronteggiare le sfide esistenziali e a riprogettare il futuro.

In condizioni di stallo motivazionale e sofferenza psicologica posso aiutarti a superare le tue difficoltà, accompagnandoti verso una consapevolezza rinnovata di te, dei tuoi bisogni, delle tue priorità e del tuo modo di “funzionare”. Posso aiutarti a ritrovare la serenità e  il benessere.

Dott.ssa Silvia Darecchio

Acufene e psicologia: uno psicologo per l’acufene?

“Fischiava per la mia tensione, un po’ come si fa con i taxi
Senza una tregua, una continuazione, ma come si fa a coricarsi?
Da solo nel letto a dannarmi, nella stanza cori urlanti”…

“Uno squillo ossessivo, come un pugno sul clacson
Primo pensiero al mattino
L’ultimo prima di buttarmi giù dal terrazzo”…

“Sentivo fischi pure se il locale carico applaudiva
Calo d’autostima
Non potevo ascoltare la musica come l’ascoltavo prima
[…] una pressione continua
La depressione poi l’ira”…

“Credevano che fossi matto
Volevano portarmi dentro
Ho visto più medici in un anno
Che Firenze nel Rinascimento
Stress
Iniziano a dire non sanno che pesci pigliare
A parte quello d’aprile
Vorrei vederlo sparire”…

“Solo chi ce l’ha comprende quello che sento, nel senso letterale
E poi non mi concentro, mi stanca
Sto invocando pietà, […]
Il suono del silenzio a me manca
Più che a Simon e Garfunkel”…

Caparezza, “Larsen” (capitolo: la tortura)

DEFINIZIONE DI TINNITO E DI ACUFENE

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Cos’è questo fastidioso disturbo? La parola “tinnito” deriva dal latino tinnire, tintinnare, e indica la percezione di suono in assenza di uno stimolo acustico. Mentre “acufene” viene dal greco: acuo ascolto e fainomai ovvero suono, fenomeno acustico. Può essere avvertito sotto forma di ronzio, tintinnio, scroscio, fischio, sibilo o presentarsi come un complesso di più suoni che varia nel tempo. Il tinnito  (o acufene) può essere intermittente o continuo, può essere quasi impercettibile o avere un volume fastidiosamente alto e, solo in rari casi, può essere completamente eliminato. Soprattutto quando è continuo e molto alto può dar luogo a molteplici effetti concomitanti:

  • sofferenze emotive;
  • stress;
  • abbassamento del senso di auto-efficacia;
  • calo dell’autostima;
  • isolamento;
  • solitudine;
  • disturbi del sonno;
  • dolore;
  • difficoltà di concentrazione;
  • spossatezza;
  • difficoltà di comunicazione;
  • veri e propri stati depressivi.

“Percezione acustica non organizzata, non realmente prodotta da alcuna sorgente sonora, né all’interno né all’esterno del nostro corpo”. Più semplicemente: l’acufene. 

La definizione più corretta di acufene esclude tutti i fenomeni percettivi che riguardano rumori e vibrazioni che hanno un’origine meccanica e che sono prodotti da una generica fonte sonora all’interno del corpo (il battito cardiaco, il respiro, la deglutizione, ecc…). Se i ronzii, i fischi, i sibili, ecc… non sono prodotti nel corpo, ma sono prodotti all’interno delle vie uditive neuro-sensoriali (il cui punto di partenza è l’orecchio interno e il cui punto di arrivo è la corteccia temporale “uditiva” e viceversa), si può parlare di acufene propriamente detto.


CLASSIFICAZIONE DEGLI ACUFENI

Nella pratica clinica, tuttavia, esistono diversi tipi di classificazione degli acufeni:

1. ACUFENI OGGETTVI vs SOGGETTIVI

La classificazione più frequentemente proposta è quella fra acufeni oggettivi e soggettivi, in base alla possibilità di registrarne, con strumenti, la presenza:

  • OGGETTIVI: il suono è generato dall’attività biologica del corpo. Il rumore che il paziente percepisce esiste davvero ed è avvertibile anche dagli altri, trattandosi di rumori prodotti da strutture vicine all’orecchio che, a causa di un’alterazione dei rapporti vascolari o a causa di un aumento della pressione sanguigna possono trasmettere alle strutture ricettive il rumore del battito cardiaco.
  • SOGGETTIVI: è la forma più comune di acufene ed interessa circa il 20% della popolazione. In questo caso il suono è generato da un’anomala attività nervosa: il paziente sente cioè manifestazioni di impulsi elettrici “parassiti”, generati in qualche punto del sistema nervoso centrale. La condizione è spesso valutata clinicamente attraverso una semplice scala da “lieve” a “catastrofica” in base agli effetti che essa comporta, quali l’interferenza con il sonno e con le normali attività quotidiane. La ricerca recente ha anche proposto due categorie distinte di acufene soggettivo: l’acufene otico, causato dai disordini dell’orecchio interno o del nervo acustico e l’acufene somatico, causato da disordini che non riguardano l’orecchio o il nervo, pur trovandosi all’interno della testa o del collo. Si ipotizza inoltre che l’acufene somatico possa essere dovuto a un “central crosstalk” con il cervello.

2. ACUFENI AUDIOGENI vs NON AUDIOGENI

La classificazione fra acufeni oggettivi e soggettivi, fatta in base alla possibilità di registrarne la presenza, non appare sufficientemente realistica in quanto, ad oggi, non esistono strumenti in grado di misurarli. Altre classificazioni, basandosi sulle diverse strategie terapeutiche,  propongono la suddivisione degli acufeni in:

  • audiogeni (o endogeni): sono quelli ad alta probabilità di insorgenza da un danno o una disfunzione dell’apparato uditivo a livello della chiocciola (coclea) o delle vie nervose uditive: in questi casi l’orecchio registra e trasmette rumori provenienti patologicamente dal proprio interno. Nella coclea ci sono infatti 12.000 “microfoni” per trasformare i suoni in segnali elettrici. Essendoci tanta corrente elettrica nell’orecchio interno è evidente che, se qualche struttura subisce anche un piccolissimo danno, aumenta notevolmente quel “rumore elettrico” di fondo che può dare luogo all’acufene;
  • non audiogeni (o esogeni): sono quelli che originano in patologie e disfunzioni situate al di fuori dell’apparato uditivo, in altri organi o apparati, come quello vascolare, muscolare, articolare, che vengono solo percepiti dall’orecchio e quindi trasmessi al sistema nervoso. Anche gli acufeni provenienti dall’orecchio ma causati da presenza e movimento di secrezioni catarrali fra tromba di Eustachio e cassa timpanica dovrebbero essere considerati non audiogeni,  in quanto la loro origine è al di fuori del complesso chiocciola-vie nervose uditive.

LE CAUSE

L’acufene non è classificabile come una malattia, ma come un sintomo aspecifico; come una condizione che deriva da una vasta pluralità di cause e situazioni. Vediamone alcune:

  • danni neurologici (ad esempio dovuti a sclerosi multipla),
  • infezioni dell’orecchio,
  • stress ossidativo,
  • stress emotivo,
  • depressione,
  • presenza di corpi estranei nell’orecchio,
  • allergie nasali che impediscono (o inducono) il drenaggio dei fluidi,
  • accumulo di cerume,
  • l’esposizione a suoni di elevato volume,
  • la sospensione dell’assunzione di benzodiazepine,
  • effetto collaterale di alcuni farmaci (acufene ototossico),
  • accompagnamento della perdita dell’udito neurosensoriale,
  • conseguenza della perdita congenita dell’udito.

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ASPETTI PSICOLOGICI LEGATI ALL’ACUFENE

Da tempo l’acufene è riconosciuto come uno dei principali sintomi tra i disturbi fisici collegati allo stress e agli stati ansiosi  e negli ultimi è uno tra i più diffusi nella popolazione. Anche se colpisce le persone in modo diverso, è possibile che insieme agli acufeni nel paziente si presentino:

  • problemi del sonno,
  • affaticamento,
  • stress,
  • depressione,
  • difficoltà di concentrazione,
  • problemi di memoria,
  • ansia,
  • irritabilità.

Il trattamento di queste condizioni  non  influisce direttamente sull’acufene, ma può aiutare ad alleviarlo. In chi soffre di acufene è infatti comunemente riscontrabile una situazione di generico stress: stress che potrebbe esserne sia la causa, sia l’effetto. La comparsa del disturbo tende ad accentuare nel paziente irritabilità, nervosismo e ansia. E’ possibile affermare quindi che nell’acufene la componente neuro-psicologica sia prevalente; la componente psicologica, cioè, gioca un ruolo fondamentale nel generare, affrontare, mantenere, alleviare e risolvere il problema. Se è vero infatti che un sistema nervoso efficiente è essenziale per dominare l’acufene, è altrettanto vero che stress e nervosismo sottraggono al cervello le risorse necessarie a tenere sotto controllo il disturbo.

Il nostro sistema nervoso è in grado di affrontare la comparsa dell’acufene in modo ottimale: se il sistema nervoso funziona correttamente impara a identificarlo e gradualmente (da alcune settimane ad alcuni mesi) a costruire un “filtro”,  per impedirgli di arrivare al livello della coscienza. Parliamo del “meccanismo di percezione selettiva”. Una condizione di ansia, invece, è uno dei più grossi ostacoli alla guarigione: i pazienti con un basso livello di ansia, riuscendo a creare una condizione di distacco emotivo dal disturbo, guariscono prima, mentre quelli molto ansiosi tendono a fare più fatica, a causa dell’interferenza negativa che l’agitazione ha su tutte le attività cerebrali, anche su quelle necessarie a sopprimere l’acufene. Una cosa analoga accade con la stanchezza mentale checausando un diminuzione delle performance cerebrali, può portare ad un calo di prestazione del “filtro” e favorire il riapparire dell’acufene, anche a distanza di anni dalla guarigione.

L’acufene può provocare depressione ma, come accade anche con l’ansia e lo stress,  può essere vero anche il contrario: può essere cioè uno stato depressivo a rivelare l’acufene, riducendo l’efficacia del sistema di controllo (il cosiddetto “filtro”). L’ acufene infatti ce l’abbiamo tutti, anche chi normalmente non lo sente. Il non sentirlo dipende dal controllo della “centralina” neuronale del sistema limbico, posta a metà strada tra la periferica audio (chiocciola) e lo schermo della coscienza uditiva (corteccia temporale). Ricordiamo che i circuiti coinvolti maggiormente nella depressione sono due: la corteccia prefrontale (e.g., Samara et al, 2018), che è la sede delle nostre funzioni superiori, dei nostri pensieri e del controllo degli impulsi e, appunto, il sistema limbico (e.g., Redlich et al., 2018) che, collegato all’affettività e alle emozioni, filtra gli stimoli esterni attraverso lo stato emotivo.

Alcuni ricercatori del NIHR (National Institute for Health Research) del Nottingham Biomedical Research Center, attraverso uno studio compiuto su 500.000 persone tra i 40 e i 69 anni, sostengono di aver trovato una correlazione tra determinati tratti di personalità e acufene. I risultati della ricerca, pubblicati su Science Direct, mostrano come alcune caratteristiche personologiche siano maggiormente associate alla comparsa e al perdurare dell’acufene. Eccole:

  • tendenza ad isolarsi e a vivere in modo solitario,
  • tendenza a preoccuparsi per la maggior parte del tempo,
  • livello di attivazione nervosa elevato,  
  • umore basso o sbalzi di umore.  

La personalità e, forse ancor di più, i meccanismi di coping (strategie usate per fronteggiare lo stress), quindi, sembrano essere correlati alla percezione dell’ acufene. L’acufene perciò può, in buona sostanza, essere considerato un disturbo soggettivo: lo stesso livello di acufene può essere descritto da un paziente come intollerabile e da un altro appena percettibile (anche a causa del livello di stress, ecc…). Non tutti reagiscono allo stesso modo, ad esempio, anche se gli uomini ne sono risultati più colpiti, sono le donne che mostrano una propensione a ritenerlo più fastidioso. Molti pazienti con acufene infatti tendono a concentrarsi sul problema, intensificando in questo modo il disturbo. Un trattamento per la gestione dello stress può avere successo nella terapia dell’acufene, è necessario poi promuovere il sollievo attraverso uno spostamento dell’attenzione, il riposo da uno stato di tensione e il supporto alle difese funzionali a scapito di quelle disfunzionali.


DALLO PSICOLOGO PER L’ACUFENE

La maggior parte dei pazienti con acufene può essere aiutata da un intervento psicologico. Questo disturbo, solo apparentemente banale, può creare un vero e proprio stato invalidante, coinvolgendo l’assetto emozionale del malato, la sua vita di relazione, il ritmo sonno-veglia, le attitudini lavorative, il livello di attenzione e concentrazione, inducendo o, molto più spesso, potenziando stati ansioso-depressivi preesistenti, interferendo pertanto sulla qualità della vita. Gli effetti sulla vita delle persone colpite dal disturbo, così come dichiarato da loro stesse, sono spesso molto drammatici.

Quali soluzioni? Se viene individuata una causa di fondo, il trattamento medico dell’acufene può portare a miglioramenti. In caso contrario, se l’acufene è “da stress” , in genere si ricorre al sostegno psicologico.

Il sostegno psicologico

La vita di chi è affetto da acufene ha subìto un cambiamento in termini qualitativi. Lo psicologo in questi casi interviene come quell’alleato che aiuta la persona a mettere in campo le risorse necessarie ad affrontare il disagio e a ridare slancio alla propria esistenza. Con il sostegno psicologico non si cerca di eliminare l’acufene (ciò che tenta di fare, non sempre con successo, l’approccio otorinolaringoiatrico), si cerca invece migliorare la qualità di vita, il tono dell’umore, lo stato di benessere psico-fisico del paziente, portandolo ad avere più strumenti utili per superare i momenti di incertezza e di difficoltà derivati dall’acufene.

Chi soffre di acufene spesso è portato a pensare al peggio, ad un tumore cerebrale o ad altre gravi patologie endocraniche. Tuttavia vale la pena ricordare che l’intensità e la durata delle reazioni emotive di fronte ad un evento, dipendono strettamente dal significato che viene attribuito all’evento stesso. Ecco che il sostegno di uno psicologo, ovviamente previo un consulto con l’otorinolaringoiatra che dovrà escludere una patologia importante, si rivelerà fondamentale nel sostegno al paziente.

Mindfulness

L’obiettivo della Mindfulness è favorire il benessere psicologico della persona. In questo caso la Mindfulness cerca di facilitare la convivenza con il “disturbo acufene” contrastando la concentrazione dei pensieri e dell’attenzione sul disturbo. Accettare l’acufene non significa subirlo passivamente, significa compiere una scelta attentiva, significa allenare i processi mentali che portano ad escludere il più possibile, dalla coscienza, la fastidiosa interferenza uditiva. Il decentramento dei pensieri è un’altra azione cognitiva importante dove il soggetto non dovrà essere sopraffatto dal pensiero acufene. Il concetto di mindfullness deriva dagli studi di meditazione buddista, Zen e Yoga, scevro tuttavia da ogni componente religiosa. La mindfullness si è rivelata importante per imparare a vivere l’esperienza dell’acufene in modo differente da come siamo abituati a fare. Si deve imparare a valutare l’acufene come un fenomeno che accade dentro di noi, accettandolo per ciò che è, senza poterlo modificare. Nel paziente con acufene infatti si crea un circolo vizioso tra attenzione selettiva, pensieri rivolti al disturbo acufene e aumento del disagio. Questa meditazione si pone l’obiettivo di interrompere questo circolo. La finalità è quella di arrivare a decentrare i pensieri e scoprire di poter convivere con l’acufene.

In conclusione: il sostegno psicologico, soprattutto se basato sull’approccio olistico,  permette di lavorare sia sul corpo (sfera corporeo-emotiva) sia sui processi cognitivi (attenzione, pensieri, memoria, attribuzioni di significato, ecc…) connessi all’acufene. Il fine è recuperare il benessere, superando stress, ansia, eccessiva attivazione interna e negativismo. La mindfulness, in particolare, agisce migliorando le capacità soggettive di convivere con il sintomo.


Come psicologa, oltre al servizio di consulenza online, ricevo in studio a San Polo di Torrile (Parma). Da oltre 10 anni ascolto ed aiuto le persone, concretamente, ad uscire dalle situazioni difficili, a fronteggiare le sfide esistenziali e a riprogettare il futuro.

In condizioni di stallo motivazionale e sofferenza psicologica posso aiutarti a superare le tue difficoltà, accompagnandoti verso una consapevolezza rinnovata di te, dei tuoi bisogni, delle tue priorità e del tuo modo di “funzionare”. Posso aiutarti a ritrovare la serenità e  il benessere.

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