Il gaslighting

Quando i silenzi feriscono più delle parole

C’è una forma subdola di violenza che non si manifesta con scoppi di rabbia bensì attraverso silenzi ostili e parole usate come armi. E’ una forma d’abuso antica, perpetrata soprattutto tra le “tranquille” mura domestiche, distruttiva poiché lascia ferite psicologiche molto profonde e difficilmente rimarginabili.  Parliamo del “GASLIGHTING”, una tecnica di crudele ed infida manipolazione mentale.

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Il termine è mutuato dalla drammaturgia e in particolare dal film “Gaslight” del regista americano Georg Cukor (1944), tratto a sua volta dalla pièce teatrale “Angel Street” di Patrick Hamilton (1938): un dramma psicologico che racconta le vicende di una coppia. Dopo un periodo felice il rapporto tra i due si incrina ed il marito, con una diabolica ed artificiosa tecnica psicologica, alterando le luci delle lampade a gas della casa, spinge la moglie fin sull’orlo della pazzia. Solo l’intervento di un detective riuscirà a ristabilire la verità: si scoprirà così che il marito è uno psicopatico criminale.


E’ difficile riconoscere questo tipo di violenza:

  • è insidiosa, sottile e non se ne percepisce l’inizio; spesso è scusata dalla stessa vittima; non trattandosi di una deflagrazione d’ira (che almeno è subito identificabile e magari oggetto d’immediata risposta, anche legale) difficilmente viene riconosciuta dalla vittima stessa e dai suoi famigliari; è gratuita e persistente, reiterata quotidianamente; ha la capacità di “annullare” la persona che ne è bersaglio; è un vero e proprio lavaggio del cervello; pone la vittima nella condizione di pensare di “meritarsi quella punizione”; 
  • è un comportamento messo in atto per minare alla base la fiducia che la vittima ripone in sé stessa, dei suoi giudizi di realtà, facendola sentire sbagliata, confusa fino a dubitare di stare impazzendo; è’ un’azione di manipolazione mentale con la quale il gaslighter (l’abusante) mette in dubbio le reali percezioni dell’altra persona; spesso è adottata dal coniuge abusante per chiudere rapporti coniugali travagliati dietro ai quali, molto spesso, si celano insoddisfazioni personali e relazioni extraconiugali.

Il gaslighting è una forma di violenza che si sviluppa anche all’interno di rapporti sufficientemente funzionali. Può accadere che un evento frustrante, al quale non si sa adeguatamente reagire, metta in crisi la fiacca sicurezza e la scarsa fiducia che ripone in sé il manipolatore tanto da pregiudicare irreparabilmente le dinamiche relazionali: il legame diventa maligno, si trasforma in una trappola che distrugge il cuore e la psiche della persona oggetto delle molestie. Così come le frecce del mitico Eracle, il gaslighting lascia ferite che nessuno potrà guarire. Una relazione di questo tipo è, in modo conclamato, narcisistico-perversa, una relazione, cioè, caratterizzata dalla presenza di un persecutore – che “deumanizza”, manipola, controlla totalmente, impedisce separatezza ed autonomia della vittima – e di una vittima che, dall’altra parte, si trova intrappolata nella rete per lei tessuta e che, lentamente, è portata ad abbandonare le proprie resistenze fino alla resa completa.  L’aspetto beffardo di questa manipolazione è che la vittima alla fine si trasforma inconsapevolmente nella complice del suo persecutore, contro sé stessa. In questo sprofondamento nell’abisso la vittima attraverserà, a grandi linee, tre fasi successive:

  1. distorsione della comunicazione: in questa prima fase la vittima non riuscirà più a capire il persecutore. I “dialoghi” saranno caratterizzati da silenzi ostili alternati da piccature destabilizzanti. La vittima si troverà così disorientata, confusa,  come nella nebbia.
  2. tentativo di difesa: in questa seconda fase la vittima cercherà appunto di difendersi, provando a convincere il suo persecutore che la verità è un’altra; proverà ad instaurare un dialogo ostinato, con la speranza che ciò serva a far cambiare il comportamento del gaslighter. La vittima si sentirà travolta da un compito diventato per lei basilare: far cambiare idea al persecutore, attraverso il dialogo e l’ascolto.
  3. depressione: in questa terza fase la vittima vedrà piano piano spegnersi il suo soffio vitale, non avrà più forze per lottare e si convincerà che ciò che il persecutore pensa e dice di lei  corrisponde alla verità.

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Sono classificabili tre tipi di manipolatore:

  1.  Il manipolatore affascinante: è probabilmente il più insidioso. Alterna silenzi ostili e tremende pungolature a momenti di intense profusioni d’ “amore”. Sottopone la sua vittima ad una continua doccia scozzese, creando, così,  artatamente, un’ atmosfera massimamente disorientante per la vittima.
  2. Il manipolatore bravo ragazzo: pensa solo a sé stesso ed è il classico lupo travestito da agnello. Sotto al travestimento si nasconde un tremendo individualista:  sempre attento ad anteporre i propri bisogni, il proprio tornaconto personale a quello della vittima, anche se riesce a dare un’impressione opposta.
  3. L’intimidatore: è il più diretto. Non si preoccupa di nascondersi dietro false facciate: rimprovera e maltratta apertamente la vittima. E’ più facile riconoscerlo.

Non vi sono parole per descrivere la sensazione di morte imminente che prova la persona colpita da questo tipo di maltrattamenti psicologici. Alla vittima è tolta la speranza del domani e ben presto manifesterà problemi psichici e psicosomatici.


 

Dott.ssa Silvia Darecchio  – Psicologa – San Polo di Torrile (Pr)  contatti

Il Disturbo Narcisistico di Personalità

Come capire se una persona soffre del Disturbo Narcisistico di Personalità? 

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Per capire se una persona soffre di Disturbo Narcisistico di Personalità devono essere  presenti almeno cinque tra i seguenti sintomi specifici,

sintomi della personalità narcisistica:

  • mancanza di empatia;
  • idee grandiose di sé (sentono di meritare un trattamento speciale, di avere particolari poteri, talenti, attrattività, di dover frequentare persone altrettanto speciali o di status elevato;
  • fantasie di successo illimitato (potere, fascino, bellezza o amore ideale);
  • tendenza a sentirsi svalutati (pensare di non essere sufficientemente apprezzati e riconosciuti nel valore);
  • senso di vuoto e apatia (nonostante eventuali successi);
  • richiesta eccessiva di ammirazione;
  • tendenza allo sfruttamento degli altri;
  • sentimenti di disprezzo, vergona o invidia;
  • atteggiamenti arroganti e presuntuosi.

Le parole chiave per questo disturbo sono “impulsività e instabilità”.

woman-3048525__340Caratteristiche psicologiche del Disturbo Narcisistico di Personalità

Le caratteristiche psicologiche degli individui con Disturbo Narcisistico di Personalità possono essere suddivise in termini di 1. visione di se stessi; 2. visione degli altri; 3. credenze intermedie e profonde;  e 4. strategie di affrontamento delle difficoltà.

  1. Visione di se stessi: io sono vulnerabile (all’abuso, al tradimento, alla trascuratezza); sono “difettoso”; “Sono cattivo”; “Non so chi sono”; “Sono debole e mi sento sovrastato”; “Non riesco ad aiutarmi”;
  2. Visione degli altri: gli altri anche se sono calorosi e affettuosi restano inaffidabili perché : “Sono forti e potrebbero essere di sostegno, ma dopo un po’ cambiare per ferirmi o abbandonarmi”;
  3. Credenze intermedie e profonde: credo che : “Devo sempre chiedere quello di cui ho bisogno”, “Devo rispondere quando mi sento attaccato”, “Lo devo fare perché devo sentirmi meglio”, “Se sono solo, non sarò in grado di affrontare la situazione”, “Se mi fido di qualcuno, questi prima o poi mi abbandonerà o abuserà e starò male”, “Se i miei sentimenti sono ignorati o trascurati, perderò il controllo”;
  4. Strategie di affrontamento delle difficoltà: se una situazione mi sovrasta mi sottometto, alterno l’inibizione ad una protesta drammatica, punisco gli altri, elimino la tensione con azioni autolesive.

Quali sono le cause del Disturbo?

Il disturbo narcisistico di personalità potrebbe essere causato da molteplici condizioni. La maggior parte delle ricerche sostiene l’idea che a causare tale sintomatologia concorrano fattori ereditari e ambientali.

Fattori ambientali:

  • IPOTESI 1:  genitori che credono nella superiorità del figlio, che premierebbero solo le qualità in grado di sostenere l’immagine grandiosa di sé e che garantiscono il successo.
  • IPOTESI 2:  ambiente familiare incapace di fornire al bambino le necessarie attenzioni e cure, di riconoscere, nominare e regolare le sue emozioni, nonché di sostenere la sua autostima o i suoi desideri. Questo tipo di contesto disfunzionale tenderebbe a sviluppare nel bambino l’idea di poter vivere facendo a meno degli altri e di poter contare unicamente su se stesso.
  • IPOTESI 3:  ambiente eccessivamente iperprotettivo che danneggia la fiducia del bambino in sé o anche un ambiente oltremodo permissivo e indulgente che comunica al bambino un senso di superiorità.
  • IPOTESI 4:  bambino vittima di offese e umiliazioni, soprattutto da parte dei coetanei, potrebbe far fronte alle continue minacce alla propria autostima sviluppando un senso di sé grandioso.

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Il disturbo e la quotidianità

Il disturbo narcisistico di personalità può compromettere ogni ambito della vita delle persone che ne soffrono: la professione, le relazioni e i rapporti di coppia. I narcisisti, infatti, quando non ricevono risposte alle loro continue richieste di ammirazione, di trattamenti di favore e alla soddisfazione immediata dei loro bisogni, possono divenire furiosi o mostrare disprezzo e distacco e, mancando di empatia, ricorrere alla manipolazione per raggiungere i propri scopi, fino alla messa in atto di comportamenti abusanti per riconquistare il potere che sentono di avere perduto. Se vengono criticati e se non ottengono il riconoscimento, che credono di meritare, possono reagire con rabbia o vergogna. Inoltre, poiché ritengono che lo status sociale ricopra un ruolo fondamentale nell’ esaltazione della propria immagine grandiosa, spesso si legano a persone famose o speciali che forniscono loro importanza di riflesso, sviluppando rapporti opportunistici e superficiali.  Gli altri, d’altro canto, sentendosi sfruttati, manipolati e non rispettati nei loro bisogni potrebbero decidere di allontanarli. Questi distacchi, confermando uno dei peggiori timori dei narcisisti, portano a periodi di forte ansia e depressione; per lo più gli unici sintomi, che riescono a motivare, chi soffre di questo disturbo di personalità, a cercare l’ aiuto di un professionista.

Le stime di prevalenza del Disturbo Narcisistico di Personalità nella popolazione generale sono dell’1% e interessa principalmente i maschi e i paesi capitalistici occidentali.

 


Dott.ssa Silvia Darecchio  – Psicologa – San Polo di Torrile (Pr)  contatti

 

Amare troppo

Qualità o quantità: quando è “troppo”?

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 L’idea per cui il vero amore non vuole nulla in cambio è un’invenzione dei sottomessi: se dai, vuoi ricevere. È naturale, è la reciprocità.”           – W. Riso –                                            

Secondo la psicologa americana Robin Norwood, specializzata in terapia della famiglia e autrice del bestseller Donne che amano troppo, uno dei testi più letti sulla “psicopatologia dell’amore”, si ama troppo quando:

  • “amare vuol dire soffrire”;
  • si parla del* partner, dei suoi problemi, di quello che pensa e non pensa, dei suoi sentimenti nella maggior parte delle conversazioni con persone intime;
  • i malumori, il cattivo carattere, l’ indifferenza del* partner vengono giustificati o considerati conseguenze di un’infanzia infelice (o altro) e ci si trasforma nel* terapeuta dell’altro*;
  • il carattere, il modo di pensare e il comportamento del* partner non piacciono, ma ci si adatta pensando che, se saremo abbastanza attraenti e affettuosi*, lui*  cambierà per amore nostro ;
  • la relazione con il* partner mette a repentaglio il nostro benessere emotivo, la nostra sicurezza e forse la nostra salute.

* si fa riferimento sia ad partner maschio che femmina

“Amare” diventa “amare  troppo” quando abbiamo un partner incompatibile con i nostri sentimenti, che non si cura di noi, o non è disponibile, eppure non riusciamo a lasciarlo: in realtà lo desideriamo, ne abbiamo bisogno sempre di  più.                                                                         – R. Norwood – 

Secondo l’autrice, che raccontava di donne co-dipendenti, in realtà  non è l’amore a motivare queste relazioni, quanto piuttosto la paura: paura dell’abbandono; paura della solitudine; paura di non essere degne d’amore; paura di essere ignorate; paura di non sapersi arrangiare da sole; paura che una vita “normale”, con un partner equilibrato, non sia abbastanza emozionante e passionale;  paura che se lui non ci ama la colpa sia nostra. 

Amare troppo è calpestare, annullare se stesse  per  dedicarsi  completamente a cambiare un uomo “sbagliato” per noi che ci ossessiona, naturalmente  senza riuscirci.                                                                                                           – R. Norwood –

E’ bene sottolineare come questi comportamenti possano appartenere sia agli uomini che alle donne. Tuttavia sembra che uomini e donne mostrino delle differenze (a causa dei valori culturali, dell’educazione ricevuta, dell’ambiente familiare) nel percepire e nell’ affrontare le relazioni. Nella nostra cultura il fatto che una donna si sacrifichi per una relazione, sino ad annullarsi, è stato accettato per secoli fino a pochi decenni fa. La nostra cultura insegna che le donne, per amore, devono essere disposte a fare di tutto. Ecco perché questa dinamica patologica (relazioni sentimentali ossessionate ed ossessionanti, caratterizzate da dipendenza e da ruoli “fissi” e disfunzionali) riguarda il genere femminile più spesso di quello maschile. I maschi più facilmente sviluppano altri tipi di dipendenza, che secondo la cultura sono più consoni al loro sesso: magari diventano “drogati” di lavoro o di Internet, o passano le giornate a guardare lo sport. Adottano queste strategie estranianti per non dover affrontare malessere e problemi, che potrebbero suscitare sentimenti di vergogna o di colpa, difficili da sostenere. Ci sono ovviamente le eccezioni, è probabile, infatti,  che più di qualche uomo si riconosca nel ritratto di chi è ossessionato dall’amore.

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Norwood, nel suo libro, individua le caratteristiche personologiche “tipiche” delle donne che amano troppo:

  • sono molto responsabili;

  • sono impegnate con grande serietà e successo;

  • hanno scarsa stima di sé;

  • hanno poco riguardo per la propria integrità personale;

  • riversano tutte le proprie energie in tentativi disperati di influenzare e controllare gli altri, per cambiarli e farli diventare come loro desidererebbero;

  • hanno un profondo timore dell’abbandono;

  • pensano che sia meglio stare con qualcuno che non soddisfi del tutto i loro bisogni ma che non le abbandoni, piuttosto che con un partner più affettuoso e attraente che potrebbe anche lasciarle per un’ altra”.

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L’origine di tale condizione è da rintracciarsi, oltre che generalmente nella cultura dominante, particolarmente nell’infanzia, spesso nella relazione disfunzionale con le figure genitoriali. Le precoci esperienze infantili, infatti, hanno un’influenza fondamentale nel modo in cui da adulti ci relazioniamo con gli altri. Le situazioni dolorose e difficili, le carenze affettive, l’assenza di figure importanti o la mancanza di limiti sono solo alcuni dei fattori che segnano il nostro modo di cercare e di dare affetto. Le donne (e gli uomini) con una simile storia tendono così ad andare alla ricerca di un attaccamento sicuro e di protezione, anche se questo significa dover stare con un uomo (o con una donna) che fa soffrire. I comportamenti che impariamo quando siamo piccoli rimangono fissi dentro di noi, e continuiamo a metterli in atto per tutta la vita. Per questo motivo, abbandonarli o cambiarli è una grande sfida, e ci sembra difficile e pericolosa. Ma ancora più difficile è prenderne coscienza e affrontare la situazione per quella che è, essere in grado di vedere con chiarezza tutto ciò che sta succedendo. 

Amare troppo” significa essere dipendenti da una relazione, in modo malsano. E’ una vera e propria forma di dipendenza che assomiglia a quella per il cibo, per la droga o per l’alcol e come in tutte le dipendenze, è necessario capirne e ammetterne la gravità prima di uscirne. Una volta che ci si rende conto di avere un problema, è importante cercare un aiuto competente, perché la strada è impervia e difficile, e pensare di potercela fare da soli è un’illusione. Come scrive la Norwood “non praticare la propria dipendenza richiede uno sforzo maggiore del semplice ripetere a se stesse di cambiare.

L’itinerario verso la consapevolezza e l’equilibrio

E’ necessario imparare il percorso dell’amare se stesse, perché è quando finalmente emerge una sana autostima che è possibile imparare a fare scelte più sagge sul piano affettivo. Quando non si è più disperate e bisognose, quando non si è più disposte a sacrificare se stesse in modo patologico per un uomo, e quando non si sente più la stringente esigenza di controllare gli altri, per modificarne il comportamento o i sentimenti, ecco che l’amore vero e sano può finalmente arrivare.

Amore è tutto ciò che aumenta, allarga, arricchisce la nostra vita, verso tutte le altezze e tutte le profondità. L’amore non è un problema, come non lo è un veicolo; problematici sono soltanto il conducente, i viaggiatori e la strada.
– F. Kafka –

Dott.ssa Silvia Darecchio – Contatti 

Per approfondire:

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Depressione: invalidità e legge 104

Anche la depressione è stata fatta rientrare fra le patologie che beneficiano della legge 104. Si parla di invalidità causata dallo stato ansioso depressivo quando dalla depressione deriva una significativa riduzione della capacità lavorativa. 

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L’ esistenza del disturbo depressivo maggiore verrà verificata e certificata da un’ apposita commissione medica. Qualora la condizione clinica fosse confermata,  nei casi più gravi (quelli che comportano un vero e proprio handicap compromettendo la vita sociale, lavorativa e lo stato di salute complessivo della persona), il lavoratore potrà  usufruire della 104 (la Legge 104/92  è  il riferimento legislativo per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone con handicap).

Per le patologie depressive, sono state esplicitate le relative percentuali d’invalidità riconosciute (nella tabella qui sotto), che danno diritto ad agevolazioni e a diverse prestazioni di assistenza.

CONDIZIONE CLINICA

PERCENTUALE  INVALIDITA’

Sindrome depressiva endoreattiva lieve

10.%

Sindrome depressiva endoreattiva media

25.%

Sindrome depressiva endoreattiva grave

dal 31% al 40%

Sindrome depressiva endogena lieve

30.%

Sindrome depressiva endogena media

dal 41% al 50%

Sindrome depressiva endogena grave

dal 71% al 80%

Nevrosi ansiosa

15.%

Nevrosi fobico ossessiva e/o ipocondriaca di media entità

dal 21% al 30%

Nevrosi fobico ossessiva lieve

15.%

Nevrosi fobico ossessiva grave

dal 41% al 50%

Psicosi ossessiva

dal 71% al 80%

La SINDROME DEPRESSIVA ENDOREATTIVA è una forma di disturbo mentale strettamente legata ad un avvenimento doloroso (ad esempio un lutto, una perdita, una sconfitta, disturbi fisici) caratterizzata da un’ ‘intensità e una durata sproporzionate rispetto alla “normale” reazione di fronte a simili eventi. L” elemento tipico della depressione endoreattiva è un sentimento di tristezza vissuto con forte partecipazione emotiva.

La SINDROME DEPRESSIVA ENDOGENA è un disturbo dell’  ‘umore caratterizzato da profonda tristezza, sconforto e apatia. Tuttavia, la causa della depressione endogena differisce da quella della depressione endoreattiva. Nella prima non si presenta una situazione esterna scatenante ma è dovuta a fattori interni psico-biologici, è causata, cioè, da un’alterazione o da un cambiamento strutturale della biochimica cerebrale; nella depressione endoreattiva, invece, esiste una relazione evidente tra il fattore scatenante e l’inizio del disturbo.

Con “NEVROSI” ci si riferisce ad una classe di disturbi mentali di media gravità non causati da una condizione organica. Le nevrosi implicano sintomi di stress (depressione, ansietà, comportamento ossessivo, ipocondria)  e non sono caratterizzate da una radicale perdita di contatto con la realtà , come nelle psicosi. Questo termine non è più usato dalla comunità psichiatrica americana dal 1980 quando è stato eliminato dal  Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders con la pubblicazione del DSM III. E’  ancora usato nel sistema di classificazione  ICD-10 . 

La PSICOSI OSSESSIVA (psiconevrosi ossessiva coatta) è costituita dalla prevalenza di idee fisse ed ossessioni, in contrasto con la personalità del soggetto e con le sue credenze, a contenuto non necessariamente patologico, ma che patologicamente agiscono, in quanto dominano il pensiero, deformandone il naturale svolgimento. Le idee fisse o ossessive (dette anche idee coatte incoercibili) rappresentano un continuo conflitto con la volontà e, per tale conflitto, si accentua quel disordine del tono affettivo che è base della psiconevrosi stessa e che, per l”  esasperazione della tensione emotiva, si trasforma in uno spasmodico stato di angoscia. 

COSA SPETTA AL RICHIEDENTE:  qualora il lavoratore depresso fosse riconosciuto come portatore di handicap, avrebbe diritto a tutti i benefici connessi alla legge 104/92, ovvero:

  • permessi retribuiti mensili (diritto di assentarsi per 3 giornate al mese);
  • scelta della sede di lavoro;
  • rifiuto al trasferimento;
  • agevolazioni fiscali.

COME PROCEDERE PER OTTENERE L’  INVALIDITA’  :  dopo che il medico curante avrà valutato lo stato depressivo del paziente, verrà emesso un certificato medico. La domanda di invalidità, corredata del numero di protocollo del certificato, dovrà essere inviata all’Inps attraverso il servizio “Domanda di invalidità”, accessibile dal sito Web dell’INPS (la domanda potrà essere inviata anche tramite patronato o Contact Center). Una volta compilata e inviata la domanda, l’  ‘Inps fisserà un appuntamento con la commissione medica Asl per l’accertamento dell’handicap (se il richiedente non sarà in grado di recarsi alla visita, sarà possibile richiedere anche una valutazione direttamente al proprio domicilio).

Training autogeno

Il termine “Training Autogeno” (TA) è stato usato per la prima volta nel 1932, quando i risultati ottenuti dallo psichiatra e neurologo tedesco J.H. Schultuz, sono stati pubblicati nel volume “Das autogene training”. Negli ultimi 40 anni, sono stati condotti numerosi studi per verificare l’ efficacia delle tecniche di rilassamento: tutte hanno mostrato di essere efficaci. Tra le tecniche più conosciute abbiamo il Training Autogeno (Autogenic Training: A Meta-Analysis of Clinical Outcome Studies).

APPROFONDIAMO

Il TA è una tecnica che permette di recuperare la tranquillità interiore e le risorse necessarie per far fronte allo stress. Con esso si insegna al paziente ad attivare il SISTEMA NERVOSO PARASIMPATICO. Il sistema parasimpatico, appartenente al sistema nervoso autonomo, è responsabile di tutte le reazione corporee involontarie che rispondono alle situazione di “riposo” e di “recupero delle energie” . Esso cioè: 

  • contrasta e bilancia le azioni della sezione simpatica;
  • favorisce la digestione;
  • favorisce l’assorbimento dei nutrienti per l’immagazzinamento delle energie,
  • favorisce la defecazione;
  • favorisce la minzione;
  • gestisce le funzionalità viscerali essenziali per la vita;
  • favorisce la quiete, il riposo e il rilassamento;
  • ristabilisce l’equilibrio omeostatico del nostro corpo;
  • permette di ottenere un miglior controllo ed un più facile raggiungimento dello stato di rilassamento.

Poiché in grado di attivare questo tipo di risposta, il TA è stato spesso utilizzato:

  • nella cura sintomatica dei disturbi d’ansia (The efficacy of relaxation training in treating anxiety);
  • per i disturbi psicosomatici; 
  • per manifestazioni nevrotiche di vario tipo (soprattutto quelle che presentano uno stretto rapporto con reazioni di tipo somatico); 
  • come coadiuvante nella gestione di alcune malattie fisiche;
  • come coadiuvante nella gestione di alcune condizioni biologiche generali. 

Per le sue caratteristiche specifiche il TA si configura come una vera e propria “terapia a partenza mentale” (Peresson, 1985). 

IL T.A. DAL PUNTO DI VISTA NEURO-FISIOLOGICO

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Vediamo ora in che modo, da un punto di vista neuro-fisiologico, esso influenza positivamente l’organismo. Il TA produce una risposta trofotropica: una risposta a livello dell’ipotalamo che riduce l’attività neurovegetativa e aumenta proprio il tono parasimpatico. In questo contesto il termine “trofotropico” indica la capacità dell’organismo di regolare, aumentandone l’intensità o inibendola, alcune funzioni viscerali. La risposta trofotropica può essere indotta sia stimolando direttamente i centri ipotalamici sia, in modo inverso, riducendo gli stimoli propriocettivi che partono dal corpo e arrivano all’ipotalamo. Il sistema muscolo-scheletrico contribuisce, più di ogni altro sistema, all’invio di stimoli verso le formazioni ipotalamiche, perciò, riducendo il tono muscolare, si riduce anche l’attivazione ipotalamica.

Sul piano vegetativo la risposta trofotropica riduce:

  • la frequenza cardiaca e respiratoria,
  • il tono muscolare,
  • la pressione arteriosa,
  • la secrezione delle ghiandole sudoripare. 

Sul piano vegetativo la risposta trofotropica invece aumenta:

  • le funzioni motorie,
  • la secrezione di sostanze gastriche,
  • la secrezione di insulina.

Lo stato di rilassamento che viene a crearsi, in conseguenza di un adeguato allenamento che parte dai muscoli (come nel TA), produce l’effetto di scaricare le tensioni in eccesso, dovute all’ansia e allo stress, e di recuperare il benessere psicofisico. 

AUTOGENO?

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J.H. Schultz denominò il suo metodo “autogeno” proprio perché la risposta trofotropica si produce spontaneamente, si “genera da sé”, senza alcun intervento attivo della volontà, ma solo grazie ad un allenamento (training) costante. Nel caso specifico, allenarsi vuol dire comportarsi in modo opposto al consueto: normalmente ci si addestra a “fare” qualcosa, ebbene, nel training autogeno ci si allena a “non fare”, a creare uno spazio in cui possano presentarsi, in modo del tutto spontaneo, le sensazioni tipiche del riposo e della calma. Nel metodo del training autogeno questo atteggiamento viene denominato “concentrazione passiva”, ed è uno stato di contemplazione degli eventi corporei e dei fenomeni psichici in cui non interferiscono le pressanti sollecitazioni provenienti dal mondo esterno.

GLI ESERCIZI

Il training autogeno si basa sull’apprendimento di sei esercizi standard (pesantezza, calore, cuore, respiro, plesso solare e fronte fresca) preceduti da uno di preparazione definito predisposizione alla calma. Si tratta di esercizi psicofisici che comprendono una serie di formule verbali necessarie per ottenere:

  • una sensazione di pesantezza e di calore negli arti;
  • la regolazione del ritmo cardiaco;
  • la concentrazione sul ritmo respiratorio;
  • una sensazione di calore nella zona dell’addome;
  • sensazioni di freschezza alla fronte. 

Per esempio, per l’esercizio di pesantezza si inizia con la formula: “il mio braccio destro è pesante”. Dopo aver ripetuto diverse volte queste parole, si passa ad altre parti, fino a che si raggiunge la sensazione che tutto il corpo sia pesante. La pratica costante della tecnica porta, quando viene ripetuta una certa frase,  ad una  risposta automatica (di calma, calore, pesantezza, rilassamento) non solo durante il training, ma anche nelle situazioni stressogene della vita quotidiana (generalizzazione della risposta).

RACCOMANDAZIONI

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Nonostante l’apparente semplicità del metodo e il tempo relativamente breve richiesto per l’acquisizione degli esercizi, la tecnica del training autogeno va praticata inizialmente sotto la guida di un esperto. Generalmente al termine di ciascuna sessione, svolta in sede di training o svolta a casa come esercitazione, viene chiesto al partecipante un breve feedback riguardo all’esperienza appena conclusasi nella quale si approfondiscono le manifestazioni fisiche e psichiche provate durante gli esercizi (pensieri, emozioni, immagini, sensazioni corporee). Dunque il training autogeno rappresenta non solo una tecnica di auto-distensione, ma anche uno strumento di incontro e di consapevolezza dei propri vissuti interiori.


Essendo operatrice clinica di Training Autogeno propongo dei corsi individuali presso lo studio di S. Polo: se vuoi provare questa efficace tecnica anti-stress,  sappi che la prima seduta di prova è sempre gratuita. 

Come psicologa, oltre al servizio di consulenza online  per chi non vive in Emilia,  ricevo in studio a San Polo di Torrile (Parma). Da oltre 10 anni ascolto ed aiuto le persone, concretamente, ad uscire dalle situazioni difficili, a fronteggiare le sfide esistenziali e a riprogettare il futuro. In condizioni di sofferenza psicologica posso aiutarti a superare le tue difficoltà, accompagnandoti verso una consapevolezza rinnovata di te, dei tuoi bisogni, delle tue priorità e del tuo modo di “funzionare”. Posso aiutarti a ritrovare la serenità e il benessere, anche grazie alla proposta di tecniche di rilassamento e di gestione dello stress.

Dott.ssa Silvia Darecchio – contatti